Non ci sono responsabili per la morte di Giacomo, deceduto in carcere dove non doveva stare

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Il ventunenne affetto da un grave disturbo psichiatrico, deceduto per inalazione di butano, era destinato da mesi a un luogo di cura (Rems) ma per lui non c’era posto a causa delle lunghe liste d’attesa.

di Manuela D’Alessandro

© ALBERTO PIZZOLI / AFP
– Detenuto nel carcere Regina Coeli

 

AGI – La Procura di Milano ha chiesto di archiviare l’indagine sulla morte in carcere di Giacomo Trimarco, il ragazzo di 21 anni trovato morto il primo giugno scorso a San Vittore dove non sarebbe dovuto stare perché era in attesa da mesi di essere collocato in un luogo di cura per un grave disturbo psichiatrico.

Per la madre non è stato un suicidio

Stando a quanto si è appreso, dagli esiti dell’autopsia emerge che è deceduto per ‘inalazione di gas butano’ e non si ravvisano possibili responsabilità nella gestione del suo caso. “Se le cose stanno così – dice la madre Stefania all’AGI – Giacomo non si è suicidato perché sniffando il butano, come fanno molti detenuti, voleva liberarsi dal malessere che viveva in carcere e non uccidersi. Si sa che i reclusi usano quelle bombolette non solo per cucinare ma per l’effetto simile all’eroina”.

Il giovane era recluso per il furto di un telefonino. Da due mesi era destinato a una Rems e da nove aspettava di essere collocato in una comunità terapeutica perché soffriva di un disturbo borderline ma per lui non c’era posto anche a causa delle liste d’attesa lunghe in media 304 giorni. Tanto deve attendere chi, per legge, dovrebbe stare nelle strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari.

“Di lui non importava niente a nessuno”

La madre Stefania pensava che il carcere fosse il posto meno pericoloso dove aspettare perché l’avrebbe tenuto lontano dalla dipendenza dall’alcol. Invece poi “è andato tutto storto. Di Giacomo non importava a nessuno, dal Sert ai servizi psichiatrici nessuno ha ascoltato la nostra richiesta di aiuto. Una comunità l’ha respinto perché era troppo ‘impegnativo’. E lui peggiorava, sempre di più”.

Racconta la signora Stefania che Giacomo, figlio adottivo con importanti traumi alle spalle, “era molto altro oltre la sua malattia. Aveva la voce di un angelo, suonava il flauto, disegnava e con le mani sapeva fare tutto. Costruiva anche macchinette per i tatuaggi in  carcere col materiale che trovava”.

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