Le incognite dell’estrema destra e dell’elettorato arabo sul voto in Israele

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I sondaggi anche stavolta indicano che non sarà facile formare un governo, nonostante la campagna agguerrita del leader dell’opposizione, Benjamin Netanyahu, che spera nel ritorno al potere anche per sfuggire ai suoi guai giudiziari

di Cecilia Scaldaferri

© MENAHEM KAHANA / AFP
– Manifesto elettorale a Gerusalemme

 

AGI – A un anno e mezzo dalle ultime elezioni, Israele torna nuovamente alle urne domani: è la quinta volta in tre anni e mezzo, un unicum per lo Stato ebraico che non ha mai visto niente di simile dalla sua fondazione nel 1948.

L’impasse politica che sembrava essere stata superata l’anno scorso con la nascita del ‘governo del cambiamento’ – una coalizione di otto partiti che riuniva destra, sinistra e centro, con la partecipazione per la prima volta di un partito arabo-israeliano, Raam – è tornata a tenere banco nel Paese.

I sondaggi anche stavolta indicano che non sarà facile formare un governo, nonostante la campagna agguerrita del leader dell’opposizione, Benjamin Netanyahu, che spera nel ritorno al potere anche per sfuggire ai suoi guai giudiziari.

Il Paese che si presenta per l’ennesima volta ai seggi è estremamente polarizzato: la vera divisione resta ‘Bibi si’, Bibi no’, con i sondaggi che da mesi danno il leader del Likud a un soffio dalla maggioranza di 61 seggi.

A preoccupare, in patria e all’estero, è la forte crescita dell’estrema destra di Itamar Ben-Gvir e Bezalel Smotrich, alleati in Sionismo Religioso.

Già alle scorse elezioni nel 2021, l’unione ultra-nazionalistica e religiosa sorprese tutti, conquistando sei seggi; oggi le previsioni sono ancora più rosee e indicano 12-14 seggi, registrando una crescita a spese di altri partiti ma anche la capacita’ di Ben Gvir di attrarre l’elettorato.

Lui già si vede ministro della Sicurezza Pubblica e non ne fa mistero, e Netanyahu – che punta ai seggi utili di Sionismo Religioso per raggiungere il numero magico di 61 – non nega ma neanche conferma.

Cruciale per l’esito delle elezioni israeliane sarà anche la partecipazione dell’elettorato arabo. Secondo le previsioni, tuttavia, l’affluenza della minoranza potrebbe toccare il minimo storico (39%), inferiore al 44,6% del 2021 che resta finora il record peggiore.

Tutto il contrario del 2020 quando i partiti arabo-israeliani – tutti uniti – raggiunsero il picco con il 64,8%, conquistando 15 seggi alla Knesset.

Certo non ha aiutato il dissolvimento della Lista unita e la decisione di Balad di correre separata da Hadash-Taal per la prima volta dal 2013: il rischio, se non viene superata la soglia di sbarramento del 3,25%, è di regalare seggi preziosi al blocco di Netanyahu, dal momento che i voti di chi non la raggiunge vengono redistribuiti.

La minoranza araba, che conta per il 20% della popolazione complessiva, è un bacino al quale in molti puntano, soprattutto nella speranza di sbloccare la situazione che si ripete da quattro round di elezioni a questa parte.

In questo gioco di ‘adescamento’ di votanti, per sottrarli ai nemici (ma anche agli amici, senza però esagerare per evitare di regalare seggi al blocco rivale), l’elettorato arabo sembra restare abbastanza sordo agli inviti a recarsi alle urne, essendo concentrato su una serie di problemi che affliggono la comunità.

In primis, la violenza diffusa nella società araba, seguita dall’emergenza abitativa, e solo in terza battuta lo status della moschea di al-Aqsa e la questione palestinese.

Infine, rispetto alle ultime elezioni, non c’è più in gioco Yamina, la creatura dell’ex premier Naftali Bennett: passato il testimone all’attuale premier Yair Lapid, l’ex tecno-colono ha annunciato un passo indietro e ha lasciato le redini alla sua numero due, Ayelet Shaked.

Il partito non ha retto il colpo, si è dissolto e la responsabile del ministero dell’Interno ha ripreso la vecchia ‘dicitura’: Focolare ebraico.

Nell’attuale scenario politico manca anche New Hope di Gideon Saar che ha scelto di allearsi con Blu e Bianco di Benny Gantz per formare Unità Nazionale.

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