Le cure a Tuan Tuan e la “diplomazia dei panda”

Economia & Finanza

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Da tesoro nazionale a strumento di “soft power” per la Cina. Il panda negli anni ha favorito i rapporti di Pechino anche con gli Stati Uniti, la Francia, la Germania e il Giappone

© Agnes BUN / AFP

 

AGI – Le cure dei veterinari cinesi e di Taiwan a Tuan Tuan, benché rivelatesi inutili con la morte del mammifero, hanno riportato il panda sotto i riflettori per l’uso politico che Pechino fa di questo animale, diventato simbolo stesso della Cina. I panda sono stati per anni il volto affabile della diplomazia di Pechino, diventando “ambasciatori” della seconda economia del pianeta e precedendo i viaggi del presidente, Xi Jinping, in molti Paesi occidentali.

I panda avevano conquistato anche Angela Merkel, che nel 2017 aveva accolto al Tierpark Zoo di Berlino l’esemplare femmina di tre anni Meng Meng (“piccolo sogno”) e il maschio, di sette, Jiao Qing (“tesoro”) assieme allo stesso Xi, in visita in Germania dopo un incontro del G20.

L’arrivo dei due panda venne definito “simbolico” delle relazioni tra Berlino e Pechino dall’allora cancelliera tedesca. L’orso-gatto (“xiongmao”, in cinese) è, per tutti, il simbolo del Wwf e, più in generale, degli animali a rischio di estinzione, almeno fino all’anno scorso, quando Pechino dichiarò che il panda non correva più questo rischio, pur rimanendo un animale “vulnerabile”, con solo 1.800 esemplari che non vivevano in cattività.

Per la Cina il panda è un tesoro nazionale, diventato il simbolo dell’antica cultura e della natura benigna del Paese asiatico. Pechino non ha risparmiato sforzi per salvare i panda dall’estinzione, nonostante il loro habitat naturale sia in gran parte compromesso.

L’aspetto paffuto e l’indole paciosa degli orsetti hanno contribuito agli sforzi per la loro sopravvivenza, anche a scapito di altre specie, forse addirittura più importanti per l’ecosistema. Nonostante le risorse impiegate per salvare questi animali dall’estinzione, il reinserimento nella natura si è dimostrato difficoltoso per gli animali nati in cattività, con limitate capacità di sopravvivenza.

Da qui, il surplus di panda che Pechino ha deciso di sfruttare per scopi diplomatici, al punto che la “diplomazia dei panda” del governo cinese costituisce, ancora oggi, uno dei più riusciti esempi del “soft power” di Pechino.

E l’amore per i panda accomuna, storicamente, anche le due sponde dello Stretto di Taiwan: nel 1941, il generale Chiang Kai-shek, a capo delle forze nazionaliste, donò due esemplari dell’orsetto allo zoo del Bronx come ringraziamento agli Stati Uniti per l’appoggio contro l’invasore giapponese.

Anni dopo, invece, fu Mao Zedong a riprendere la pratica di donare i panda, come fece nei confronti dell’Unione Sovietica e della Corea del Nord. La diplomazia dei panda ebbe nuovo slancio nel 1972, in occasione della storica visita in Cina del presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, con l’arrivo di due panda allo zoo nazionale di Washington.

Negli anni successivi, gli orsetti del bambù sono sbarcati anche in Gran Bretagna, Spagna, Francia, Germania, Giappone e Messico. Anche Xi Jinping ha sfruttato la “diplomazia dei panda”, accompagnata, spesso, alla firma di importanti accordi commerciali.

Nel 2015 c’erano solo 42 esemplari in dodici zoo al di fuori della Cina: due anni più tardi, il numero dei panda all’estero era salito a settanta, e gli orsetti erano presenti in venti Paesi. Australia, Francia e Canada hanno ricevuto panda dopo la firma di accordi con Pechino sulla vendita di tecnologia per il nucleare, mentre l’Olanda li ha ottenuti con la firma per forniture di servizi sanitari avanzati, e la Scozia ne ha avuti un paio come parte di un accordo per la vendita di tecnologia per le esplorazioni offshore e per le forniture di salmone.

Ma i panda possono anche servire a punire chi si allontana dalle regole non scritte, ma considerate fondamentali da Pechino: accadde nel 2010, quando la Cina fece rimpatriare i cuccioli di panda nati negli zoo di Atlanta e di Washington, in virtù di una clausola contrattuale che prevede che i panda, compreso il loro seme, rimangano di proprietà della Cina anche in seguito alla cessione ad altri Paesi, dopo che l’allora presidente Usa, Barack Obama, incontrò il Dalai Lama.

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