Il mestiere nascosto: intervista allo sceneggiatore Valerio Vestoso

Arte, Cultura & Società

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Intervista a cura del Co-direttore Daniela Piesco 

Il talento non è un dono: è una pratica. Costante. Che va alimentata, con l’esercizio e la determinazione: Valerio Vestoso ogni volta che può, si siede e scrive . Al computer, su un taccuino, su una lavagna… La sua testa e le sue dita sono sempre pronte a tradurre pensieri in periodi e paragrafi ; tutto ciò è diventato qualcosa di naturale.E ha costruito grandi castelli di immaginazione proprio comodamente seduto da qualche parte .

Non si nasce con questa capacità, si acquisisce poiché il mestiere di sceneggiatore richiede una costante capacità ricettiva dell’ambiente che ci circonda, per cogliere immagini, parlate e contesti che, chi può dirlo, magari un giorno finiranno in una sceneggiatura.

Per essere sempre e davvero sul pezzo, un bravo sceneggiatore deve avere sempre la valigia piena di suggestioni ed essere costantemente animato da autentica curiosità.

La sceneggiatura è uno dei primi passi fondamentali attraverso cui si sviluppano la narrazione cinematografica e televisiva. Si parte da un soggetto, che può nascere da un’idea originale oppure da un testo teatrale, da un romanzo o da una precedente sceneggiatura e si scrive una storia, attraverso i dialoghi e le azioni dei suoi protagonisti, nonché la descrizione degli ambienti in cui tali dialoghi e azioni si svolgono.

Lo sceneggiatore offre un contributo essenziale alla costruzione degli aspetti psicologici dei personaggi, pertanto oggi cercherò di capire meglio in cosa consiste il suo lavoro, attraverso un dialogo con un vecchio amico , Valerio Vestoso, sceneggiatore di cortometraggi, lungometraggi, web serie , programmi e serie tv.

Preliminarmente occorre sapere che Valerio Vestoso,regista e sceneggiatore nasce a Benevento nel 1987.

Approda al cortometraggio con “Tacco 12”, mockumentary sull’ossessione per il ballo di gruppo. Nel 2016 scrive lo spettacolo “Buena Onda” con Rocco Papaleo e Giovanni Esposito, vince il Premio Solinas– Bottega delle Serie con la sceneggiatura “Flash” e dirige numerosi branded content e commercial tv.

È autore dello chansonnier surreale Enzo Savastano (Premio Satira, Premio della Critica Musicultura), regista del corto “Ratzinger Vuole Tornare” (in selezione ai Nastri D’argento) e del documentario “Essere Gigione”, dedicato al re delle feste di piazza italiane. Nel 2019 firma la regia dei contenuti video del programma di Serena Dandini “Stati Generali” e scrive la sceneggiatura della serie “L’Avvocato Malinconico”, tratta dai romanzi di Diego De Silva.

È tra gli autori del programma tv “Una pezza di Lundini”.

Il suo ultimo lavoro, “Le Buone Maniere”, è stato presentato in selezione ufficiale ad Alice nella Città 2021.

L’intervista

Regista, sceneggiatore, montatore: un professionista poliedrico Valerio. Contesti diversi richiedono modalità di lavoro diverse?

Sono tre accezioni del mio lavoro che amo moltissimo perché in un modo o nell’altro permettono di scrivere e riscrivere ciò che lo spettatore vedrà. Non sempre ho la possibilità di essere sceneggiatore, regista e montatore di quello che faccio, ma se ci riesco, affronto tutto con maggiore contentezza. In caso contrario cerco di tenere sempre il progetto al centro, preservando la mia visione.

Ci puoi spiegare un po’ meglio in cosa consiste il tuo lavoro e quali sono i passaggi principali della scrittura di una sceneggiatura?

Lo sceneggiatore è una sorta di mestiere nascosto. In Italia, a dispetto di una tradizione meravigliosa di scrittori per il cinema, si tende sempre ad offuscarne il lavoro a beneficio di quello registico. Molto spesso si legge “un film di”, cui segue il nome del regista. Molto raramente si legge “un film scritto da”. In realtà sarebbe giusto conferire allo sceneggiatore un’importanza maggiore, visto e considerato che le immagini finali di cui beneficia il pubblico sono quasi sempre frutto di una sua idea. Lo stesso vale per i dialoghi, per il ritmo che una storia ha. Indubbiamente un regista può ravvivare una scrittura monotona e mettere in scena un film incredibile, ma sono della scuola di pensiero per cui dietro ogni film memorabile si nasconda una grande sceneggiatura.

Valerio se la sceneggiatura è un mezzo, più che un fine, perché sarà poi lo strumento che altri professionisti useranno per portare a termine un lavoro, quanto è importante coniugare praticità e chiarezza di informazioni, con uno stile affabulatorio, che trasmetta anche il potere narrativo della storia?

Questa domanda è interessantissima, perché dietro le quinte c’è sempre una doppia politica di approccio alla scrittura di un film. Alcuni ritengono che la sceneggiatura debba limitarsi a fornire un’ossatura, uno scheletro anche molto arido, di descrizioni e dialoghi. Soprattutto le didascalie subiscono questo diktat, laddove si vuole far passare produttori e finanziatori come persone concrete, pragmatiche al punto tale da non poter perdere tempo a leggere script corposi, dettagliati, ammalianti. Io la penso in maniera opposta. Quando scrivo mi diverto a puntualizzare i personaggi, le atmosfere, col passo letterario. E francamente mi piace immaginare che quando queste informazioni verranno lette da attori, produttori, scenografi, costumisti, truccatori, etc…, saranno indispensabili ad entrare meglio nella storia e a lavorare con più consapevolezza. In più, farcendo i dialoghi di indicazioni per gli interpreti, ottimizzo i tempi di set che solitamente sono frenetici. Molte volte con un aggettivo sullo script, l’attore ha la possibilità di preparare il personaggio nella direzione che mi piace di più, ed evitiamo incomprensioni.

Quando si scrive , difficilmente alle 17:00 ti cade la penna. Spesso ci si porta a casa  i personaggi e le scene ..

Mi porto personaggi e scene. Fino a qualche anno fa era un onere che toccava solo agli sceneggiatori, portarsi il lavoro a casa ed evitare di terminare in orari standard. Oggi, con la fluidità dei mestieri, lo smartworking e il dilagare della professione libera, naturalmente tocca un po’ tutti. Il privilegio è che non si tratta di scartoffie e pratiche d’ufficio, ma di narrazioni, di racconto, e questo in un modo o nell’altro resta un privilegio.

Come è nata la tua passione verso questo mestiere e a quali maestri ti ispiri o ti sei ispirato?

La passione per questo mestiere nasce da piccolissimo. Ho cominciato a sei anni a maneggiare una vhs e da quel momento non l’ho più mollata. Non c’era un contesto tale che favorisse questa attitudine, per cui piano piano ho dovuto cercarmi delle piccole arene in cui mettere in moto la macchina da presa: vacanze, feste in famiglia, persino veglioni di capodanno. Poi ho bazzicato in adolescenza qualche tv privata e infine, grazie a dei contest milanesi, c’è stata l’occasione di mettere in scena delle storie. Sono venuti fuori i miei primi corti e la possibilità di conoscere collaboratori, amici, con cui condividere il set. Di maestri ce ne sono tanti, più che altro di riferimenti. Da Scola a Bunuel, da Allen a Ostlund, fino a tutto il cinema nord europeo che mi alletta per la chirurgia delle immagini. Avrei voluto avere un maestro fisico, un guru del cinema che mi prendesse per mano e mi indicasse una strada, ma la mia generazione non gode di questo privilegio. Noi registi nati negli anni ’80 siamo cresciuti guardando e provando ad emulare, con i pochi mezzi a disposizione. Ma ci è venuto in soccorso il digitale, nemico amico che distrugge e potenzia, a seconda di come lo utilizzi. Ecco perché siamo un po’ tutti registi, sceneggiatori ma anche montatori, perché all’inizio abbiamo cominciato facendo tutto in maniera autonoma e siamo rimasti nostalgicamente legati a questa modalità.

Quali sono le principali figure professionali con cui ti rapporti nel tuo lavoro e quanta influenza loro hanno su di te e tu su di loro?

Le figure sono tante, a seconda del progetto. In primis direi il direttore della fotografia, che è la persona capace di tradurre in immagini tutto ciò che hai in testa. Banalmente illumina la scena, ma in realtà il suo apporto è molto più raffinato e profondo, figlio del suo background personale, della sua cultura, del modo di vedere il mondo e l’arte. Poi c’è l’aiuto regista, ovvero l’alleato, il miglior amico che difende le tue scelte agli occhi della produzione e mette in modo meccanicamente il set perché tutto proceda nei tempi stabiliti dalla tabella di marcia. A questi naturalmente si aggiungono co-sceneggiatori, nel caso in cui si scriva a più mani, e capireparto, depositari di tutte le informazioni utili a rendere l’idea registica.

Quali spazi di autonomia ha uno sceneggiatore all’interno di uno staff cinematografico o televisivo?

Dipende molto dalle situazioni e dagli interlocutori. Finora sono stato sempre fortunato. Mi sono imbattuto in persone ed entità che sanno quanto tutelare le idee di uno sceneggiatore sia la strada migliore per arrivare al successo, o banalmente per mettere in scena qualcosa di originale. Ingabbiarsi in determinati standard è una pratica abbastanza diffusa tra i produttori e le piattaforme che, ancorati a determinati e fantomatici ingredienti, tendono a replicarli all’infinito con l’illusione che anche i risultati siano gli stessi. In realtà il pubblico è sempre affamato di novità e fiuta il bluff molto più argutamente di quanto si possa pensare.

La sceneggiatura nasce da un’idea, non sempre questa idea è dello sceneggiatore. Quali sono le difficoltà nel realizzare qualcosa che viene commissionato da terzi?

Non ci sono difficoltà particolari. La cosa fondamentale è chiarire dall’inizio il margine di autonomia che si può esercitare rispetto ad un’idea altrui. Prendiamo un libro. Mi è capitato di tradurre per la tv i romanzi di Diego De Silva dedicati all’Avvocato Malinconico. Con gli altri sceneggiatori, De Silva stesso, Rosella e Reale, abbiamo deciso di saccheggiare dai libri l’umore e il carattere del personaggio principale, declinandolo secondo l’andamento del racconto generalista. Il committente, la Rai, ha capito che conveniva lasciarci carta bianca in questo e fidarsi in maniera cieca della nostra idea, e l’esito è stato più che soddisfacente. Ci sono casi in cui, invece, un produttore ha un’illuminazione, un input di dieci parole, anzi una logline che quasi sempre è accattivante. A quel punto sta allo sceneggiatore espanderla in base alla propria sensibilità. Sono casi più unici che rari, ma in realtà più diffusi di quanto si pensi. Personalmente mi diverte partire da idee personali ma non snobbo le imbeccate di terzi, perché vuol dire mettersi al servizio della storia, e sperimentarsi su narrazioni che nemmeno si considerava compatibili con sé stessi. Da questi inattesi incontri nascono spesso colpi di fulmine interessanti.

Quando si legge un libro le immagini della storia sono create dalla persona che legge, ad esempio la descrizione degli ambienti o dell’aspetto di un personaggio vengono tradotte dal singolo in molti modi diversi. Nel cinema invece queste descrizioni vengono espresse anche a livello visivo. Quali sono le differenze tra scrivere un romanzo e una sceneggiatura?

Sono due linguaggi totalmente diversi, ma in entrambi i casi rappresentano le impalcature su cui poi si dovrà cucire la pelle e il vestito del racconto. In sceneggiatura questo aspetto è assai più palese, visto e considerato che si tratta di un documento interno, utile ai soli addetti ai lavori che poi dovranno lavorarci. Anche il romanzo, però, ha esattamente la stessa caratteristica. Pur essendo più completo, lascia sempre qualcosa di aperto, consentendo al lettore con la sua sensibilità di tradurre nella sua testa ogni singola parola, ogni aggettivo, ogni immagine in qualcosa di strettamente soggettivo. È il motivo per cui gli adattamenti cinematografici danno sempre adito ad una sfilza di lettori delusi per come quel personaggio o quella scena è finita sullo schermo.

C’è un po’ di noi in ogni scelta che facciamo, in ogni storia che raccontiamo. Cosa c’è di te nelle tue sceneggiature?

Sicuramente l’indomabile desiderio di maneggiare personaggi e situazioni distanti anni luce da me. In questo senso il cinema è una macchina del tempo e dello spazio con cui il regista può divertirsi a vivere vite esageratamente estranee alla sua, ottenendo un lasciapassare per la psicologia, la sociologia e continuando a giocare, a mescolare, senza che nessuno lo tacci di essere rimasto un ragazzino. A questo si aggiunge indirettamente una dose di sfumature che fanno parte del proprio vissuto e finiscono nelle storie in maniera del tutto indiretta. Una pratica, questa, che attiene all’inconscio, e si mette in moto ogni qualvolta c’è una pagina bianca da riempire.

Progetti futuri e progetti in corso…

Ho appena terminato le riprese della serie “Vita da Carlo” per Paramount, che mi vede alla regia insieme a Carlo Verdone, e sto per cominciare un nuovo progetto di serie per Amazon, di cui non si può dire ancora moltissimo.

2 Replies to “Il mestiere nascosto: intervista allo sceneggiatore Valerio Vestoso”

  1. Rosario ha detto:

    Brava Daniela e complimenti a Valerio. Figli della stessa terra.

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