L’appello della sorella di Imane Fadil: ”Ridateci i telefoni sequestrati”

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In un’intervista all’AGI i familiari della testimone d’accusa del processo Ruby morta nel 2019 chiedono agli inquirenti di resititurgli gli effetti personali con la speranza di trovare informazioni utili perché non credono sia morta per malattia

di Manuela D’Alessandro

Imane Fadil

 

AGI – A poche settimane dalla sentenza del processo ‘Ruby ter’, i familiari di Imane Fadil hanno due richieste.

La prima: riavere dai magistrati quelli che nei verbali di polizia si chiamano ‘effetti personali’ e che poi sono gli ultimi oggetti sui quali è rimasto lo sguardo di chi non c’è più, in particolare i telefonini da cui potrebbero arrivare, sostengono, informazioni importanti.

La seconda: riuscire a far riesumare la salma per un’altra autopsia e far riaprire le indagini all’inizio iscritte per omicidio volontario a carico di ignoti.

I resti della testimone dell’accusa nel processo Ruby sono seppelliti al cimitero Monumentale di Milano. Fatima Fadil, la sorella più grande, e il marito Cosimo Pasqualone, vengono spesso da Neuchâtel, Svizzera francese, dove vivono, a trovarli e  interrogarli e a “giurare che faremo di tutto per trovare la verità” che per loro non è la morte a 33 anni per una malattia “estremamente rara e grave”, l’aplasia midollare,  come si legge negli atti dell’inchiesta. Nessun avvelenamento, dicono gli scienziati, come in un primo momento si era ipotizzato “per l’alto livello di metalli del sangue”, riferito dal procuratore Francesco Greco in una conferenza stampa.

Li incontriamo in un bar dopo che sono passati dallo studio dell’avvocato per ritirare le centinaia di pagine dell’indagine che  il 28 settembre del 2022 è stata archiviata ma che nella loro testa  è apertissima.

“La Procura non risponde alle nostre mail”

“Il caso è chiuso e mia sorella non è stata ammessa come parte civile nel processo  – spiega all’AGI Fatima Fadil –. Ci chiediamo perché, nonostante le numerose sollecitazioni senza risposta attraverso mail alla Procura, non ci siano stati restituiti gli effetti personali da cui potremmo avere notizie preziose per capire com’è morta”. “Abbiamo bisogno in particolare dei telefonini e delle bozze del libro che sono state sequestrate – interviene il marito -. E i telefonini ce li devono restituire funzionanti  perché Imane mi aveva fatto depositare delle cose in una banca svizzera. Per aprire la cassetta che abbiamo affittato c’è bisogno del certificato di morte, che abbiamo, e di un codice o di una sua impronta digitale e il telefono ci servirebbe a questo. Che c’è nella cassetta? Non lo so nemmeno io”.

L’ex modella marocchina che sognava di diventare giornalista sportiva stava scrivendo un libro nei mesi precedenti alla morte avvenuta il primo marzo del 2019 dopo un mese di agonia all’ospedale Humanitas. “Le bozze sono state sequestrate da tre anni – prosegue Pasqualone –. A costo di pubblicarcelo da soli su Amazon, vogliamo che quel libro veda la luce. E rivorremmo anche il suo passaporto, i suoi abiti, tutto quello che parlava di lei”.

“Vorremo far riesumare la salma”

Credono che qualcuno abbia voluto eliminare Imane per come si era esposta nel processo: “Iniziò a parlare quando sui giornali la definirono ‘olgettina’ – racconta la sorella -. Era furiosa: lei non aveva preso né soldi né case  da nessuno e non aveva fatto sesso con Berlusconi. Era andata alle cene perché voleva fare la giornalista sportiva e riteneva che il presidente avrebbe potuto aiutarla. Non crediamo alla sua morte naturale e, prima o poi, vorremmo far riesumare il corpo perché siamo convinti di poter avere delle informazioni utili o almeno far analizzare in Svizzera dei reperti medici sul suo sangue. In Italia, per esempio, non c’è la tecnologia  per rintracciare il polonio. In ospedale le ‘lavavano’ il sangue tutti i giorni per la presenza dei metalli. E’ normale che poi siano scomparse le loro tracce che lo stesso procuratore Greco aveva definito “anomale”.

Il 2 gennaio del 2021 la giudice Alessandra Cecchelli aveva respinto una prima richiesta di archiviazione invitando i pm a indagare su eventuali ritardi o negligenze dei medici nella diagnosi che sono state poi escluse da successivi accertamenti.

“Il suo corpo era un pezzo di carbone”

“Per quindici giorni nessuno ci ha detto che stava male  – afferma Pasqualone – . La prima volta che l’ho vista in ospedale era verde. Uno dei medici ha detto che era stata avvelenata, c’è la registrazione. Quando l’hanno portata all’obitorio, dov’è rimasta sei mesi prima che dessero l’ok alla sepoltura, un signore mi ha avvicinato: “E’ 30 anni che lavoro qui e non ho mai visto un corpo ridotto così’. Il cadavere era un pezzo di carbone”.

Verso la fine della conversazione, Fatima piange: “Io non dormo più la notte. Mia madre che ha 74 anni mi ripete: ‘L’avete abbandonata, avete abbandonato Imane, non fate più niente per lei’. Io non sono nemmeno riuscita a vederla in ospedale. La sera precedente alla morte abbiamo parlato al telefono. Era tranquilla, pensava di guarire. Il giorno dopo mentre cercavo dove fosse ricoverata è sceso mio fratello dalle scale dell’ospedale, verde in viso, e mi ha detto: ‘Non c’è  più”.

Le sorelle avevano vissuto insieme prima a Torino e poi a Milano per alcuni anni, anche quelli delle cene ad Arcore. “Eravamo legatissime.  Mi svegliava di notte quando tornava dalla villa di Berlusconi. Perché andava? Voleva fare la giornalista sportiva, ne capiva. Infatti Berlusconi, che a lei, va detto, non ha mai fatto avances, se la metteva vicino quando guardavano le partite ad Arcore”.

Di Imane ci tiene a ricordare  un aspetto: “Era una che studiava sempre, leggeva tantissimi libri. Era molto più intelligente di me. Un giorno le dissi che quelle che andavano ad Arcore erano delle prostitute e lei mi rimproverò: ‘Ognuno ha la sua situazione, non voglio giudicarle’. Allora mi sono zittita: aveva ragione, ma lei era diversa da loro”.

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