Troppi morti dopo il terremoto. In Turchia i riti funebri sono sempre più brevi

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La situazione nei cimiteri di tante città colpite dal sisma si fa sempre più problematica. I corpi vengono trasportati in maniera sempre più precaria e, in molti casi, sono gli stessi parenti a scavare le buche per seppellire i loro cari
Morti seppelliti in buche di fortuna dopo il terremoto in Turchia

 

AGI – Sale ancora il tremendo bilancio del sisma che ha colpito la Turchia lunedì scorso: sono ormai 18.342 le vittime. Un numero cui si aggiungono gli almeno 3.500 morti che il sisma ha mietuto nel nord della Siria. Per quanto riguarda la Turchia, in base a quanto rivelato dalla protezione civile turca AFAD, i feriti sono 74.242. La stessa AFAD ha dichiarato che 97 mila tende familiari sono state approntate. Uno dei problemi peggiori, tuttavia, è quello delle sepolture, del rendere omaggio a chi ha perso la vita a causa della forte scossa.

Gli ultimi (sempre più rapidi) saluti

Molte sono le storie, spesso strazianti, che arrivano dai due Paesi. Genitori che non vogliono abbandonare i luoghi, macerie e detriti, dove sono ancora seppelliti i loro figli. Una madre piange accanto alla semplice assicella di legno che segnava il punto in cui suo figlio è rimasto sotto le macerie, un padre che tiene la mano della figlia, mentre il resto del corpo è seppellito dai detriti. Foto e lutti che hanno fatto il giro del mondo.

La madre, Gullu Kolac, non ha mai smesso di gridare “mio figlio, mio figlio”, come se volesse fermare il tempo e tornare indietro. E ad angoscia si aggiunge angoscia. A molti dei morti, tra cui anche suo figlio, viene concessa solo una forma abbreviata dei soliti riti funebri. I corpi, quando si può, vengono puliti secondo la tradizione islamica, avvolti in un sudario bianco e calati nella terra. Sono tutte piccole consolazioni che restituiscono un poco di dignità in una settimana segnata dalle tragedie. Dire addio i propri cari diventa però un gesto troppo rapido. Elaborare la perdita è impossibile. I morti sono troppi, i tumuli si moltiplicano velocemente.

Il nuovo processo, imposto dalla crisi umanitaria in corso, mira a onorare i morti e a seppellirli nel tempo più breve possibile, sia per consuetudine che per salute pubblica.
Il cimitero fuori dal villaggio di Kapicam, ad esempio, è stato stravolto dalle necessità di liberare costantemente gli spazi. In tempi normali, sarebbe stato un luogo silenzioso, sacro, circondato dalla foresta e ombreggiato da pini imponenti, con un panorama di montagne innevate in lontananza. Tre giorni dopo il terremoto, quelle stesse stradine, erano pieno di famiglie disperate e di cadaveri, avvolti in coperte o chiusi in sacchi.

La maggior parte dei corpi arriva nei cimiteri attraverso i camion, le ambulanze e  veicoli funebri. Quasi tutti tumefatti, martoriati, spesso poco riconoscibili. Esattamente come sono stati estratti dalle macerie. Molti vengono adagiati uno accanto all’altro, spesso in gruppi numerosi, in attesa che i parenti li reclamino o che possano ricevere gli ultimi preparativi per la sepoltura. Uno scenario apocalittico, con un flusso continuo di uomini adibiti a questo disumano trasporto.

Ogni operazione, per i parenti, diventa così un vero calvario. Nell’Islam, le sepolture dovrebbero avvenire il prima possibile, e molti credenti hanno espresso dubbi sulla procedura in atto. Altri, invece, sostengono che le vittime assumano lo status di martiri, una benedizione e un conforto per chi deve salutarli senza preparazione.

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© Afp

Corpi d persone morte dopo il terremoto in Turchia

La difficoltà nel recuperare i corpi

Ünal Boybey e la sua famiglia sono stati lasciati da soli a estrarre i corpi dei loro parenti dalle macerie nella città turca di Adıyaman. Successivamente hanno anche dovuto scavare le tombe. “Normalmente lo farebbero gli operai comunali”, ha detto il 63enne la cui storia è stata raccontata dal Financial Times. L’uomo guarda due giovani spalare zolle nel cimitero della città, già stracolmo. “La struttura non ha abbastanza personale. E ci sono così tanti, troppi, corpi. Dobbiamo fare tutto da soli”.

Adıyaman, una città di 200.000 abitanti circondata da montagne innevate, ha subito danni spaventosi a causa dell’enorme terremoto di magnitudo 7,8. Innumerevoli edifici sono stati rasi al suolo, migliaia di persone sono rimaste uccise e il cibo e i ripari scarseggiano. Lo Stato sta lottando per far fronte alla situazione. All’ospedale universitario, i corpi giacciono su barelle fuori dall’ingresso principale mentre si aspetta che i parenti arrivino, con i veicoli, per prelevarli.

Un chirurgo, esausto, con il camice macchiato di sangue, ha confessato che la struttura era già a corto di medicine e di attrezzature e che, con i colleghi, ha dovuto ricorrere all’amputazione degli arti delle vittime del terremoto usando una sega per tagliare i metalli.

Anche al cimitero, dove più di 50 auto fungevano da carri funebri improvvisati in coda per entrare, c’erano pochi veicoli comunali per il trasporto delle salme. Hacı Yıldırım, l’autista di uno di questi veicoli, è scoppiato in lacrime mentre osservava lo scarico di altri quattro corpi. “Non so dirvi quanti ne ho portati”, ha detto il 48enne. “È una situazione drammatica”.

Il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, visitando la città, ha ammesso per la prima volta che le operazioni di ricerca e soccorso non stanno procedendo così rapidamente come sperato. “Sono stati danneggiati così tanti edifici che purtroppo non siamo stati in grado di accelerare i nostri interventi con la rapidità che desideravamo“.

Le storie di speranza

Dalle macerie non emergono solo i morti. I sopravvissuti, estratti vivi da ciò che resta dal crollo degli edifici, ridà costante speranza ai soccorritori nel continuare la loro opera di salvataggio. Una bambina di 10 anni è stata trovata viva sotto le macerie dopo 90 ore dal terremoto. I vigili del fuoco di Antalya hanno lavorato per oltre 7 ore per tirare fuori la bambina intrappolata sotto le macerie di un palazzo nella provincia di Hatay.

A 102 ore dalla catastrofe, sei persone sono state recuperare da ciò che restava da un grande palazzo crollato ad Antakya, una delle principali città colpite, centro della provincia dell’Hatay.  I salvati appartengono a due diverse famiglie che ora attendono di veder comparire dalle macerie altri parenti, ancora vivi ma intrappolati in una prigione di lamiere e cemento.

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