“Festival del Carciofo Romanesco” – nel centro di Roma 4 giorni all’insegna dell’ortaggio simbolo della tavola romana

Lazio

Di

Claudio Di Salvo

Si parte martedì 28 marzo alle 11 a via del Portico d’Ottavia e si andrà avanti fino a venerdì 31: il cuore di Roma s’infiamma tra tradizione e storia, competizione e sapienza antica delle ricette delle nonne, tramandate di generazione in generazione. Va in scena la seconda edizione del Festival del Carciofo Romanesco. Cuore della manifestazione sarà come lo scorso anno sempre il quartiere ebraico, ma la novità di quest’anno è l’allargamento anche ad altri quartieri e rioni storici come Campo de’ Fiori e Piazza Navona. Saranno 18 i ristoranti che aderiscono all’iniziativa, con menù a base di carciofo da proporre a romani e turisti, gourmet e appassionati tra ricette tradizionali e rivisitazioni moderne. Dalle fettuccine tradizionali, ai bombolotti, sino alla pasta fresca ripiena, per passare poi a gustose frittatine e ai secondi a base di abbacchio, pietanze di carne accompagnate da ricchi piatti di carciofi nelle varianti alla romana e alla giudìa. L’innovazione anche nei dessert proposti a base di gelati rivisitati al carciofo. Gli stand di Coldiretti e del CAR – Centro Agroalimentare Romano daranno il benvenuto ai visitatori all’ingresso di Largo 16 ottobre. Nei giorni del Festival, inoltre, all’indomani della giornata europea del gelato che cade il 24 marzo, sarà presente anche una delegazione dell’Associazione Italiana Gelatieri con maestri e professionisti autentici ambasciatori del gelato made in Italy, guidati dal campione del mondo Eugenio Morrone, che proporranno delle degustazioni personalizzate.

IL CARCIOFO ROMANESCO – “Semo romani, ma romaneschi di più” è lo slogan, mutuato dai versi del cantautore romano Lando Fiorini, che identifica il carciofo come punto di riferimento del territorio romano. La manifestazione presenta diversi significati legati a questa icona gastronomica: il carciofo infatti è un prodotto del territorio laziale, che viene così valorizzato e riscoperto, ma è anche un ingrediente fondamentale della tradizione culinaria romana e giudaico-romanesca, che ne hanno declinato l’uso in numerose ricette, famose in tutto il mondo. Ma il carciofo è anche un alimento cardine della dieta mediterranea, base di un corretto stile di vita per preservare la nostra salute partendo dalla prevenzione. A distinguere l’iniziativa da altre fiere o sagre sarà proprio il luogo dove partirà e dove si terrà la maggior parte dell’evento, l’ex ghetto al centro di Roma, dove il carciofo ha trovato le sue prime ricette, per poi diventare orgoglio per i romani e attrattiva per i turisti. L’iniziativa è ideata da Confesercenti e promossa da Ministero dell’Agricoltura, della Sovranità Alimentare e delle Foreste, Centro Agroalimentare Roma, Azienda speciale Agro Camera (Camera di Commercio di Roma), Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare – ISMEA.

“Da parte di Confesercenti Roma e Lazio esprimo grande orgoglio per questa manifestazione – sottolinea il Presidente di Confesercenti Roma e Lazio, Valter Giammaria – Un processo virtuoso nel turismo e nella ristorazione si può innescare solo attraverso una valorizzazione delle eccellenze del territorio, proponendo ai consumatori prodotti di qualità insieme alla professionalità degli operatori. Il carciofo romanesco è un prodotto che fa parte della cultura culinaria di Roma e del Lazio ed è giusto che noi, come Associazioni, attraverso questi eventi, facciamo conoscere ai nostri concittadini e ai turisti le materie prime che la nostra regione offre, la loro importanza a livello nutrizionale e il lavoro che gli chef e tutti gli operatori della filiera svolgono ogni giorno per far arrivare sulle nostre tavole queste prelibatezze”.

“Riscoprire le nostre tradizioni culinarie, le ricette e i prodotti del territorio, anche riproponendole in chiave moderna e innovativa, è un’opportunità che gli imprenditori devono cogliere per rilanciare le attività di ristorazione, che è anche cultura e storia antica di generazioni, soprattutto in seguito a quanto vissuto a causa della pandemia – evidenzia Claudio Pica, Presidente FIEPET – Il Festival del Carciofo Romanesco vuole dunque ribadire l’importanza delle tradizioni e del territorio con uno dei prodotti di eccellenza della nostra tradizione gastronomica, che segna il forte legame che esiste tra cibo e cultura identitaria di un popolo; il tutto con lo sfondo d’eccezione offerto dal centro di Roma e in particolare dal complesso del Portico d’Ottavia”.

“Questo festival si distingue da altre fiere legate all’ortaggio in quanto si svolge all’insegna della degustazione nelle diverse varianti in cui il carciofo può essere proposto – commenta Angelo Di Porto, Presidente Assoturismo Roma – Il valore aggiunto di questo festival è nel luogo stesso dove si svolge, il quartiere ebraico nel cuore di Roma, laddove le ricette del carciofo alla romana e alla giudia sono nate e si conservano attraverso tradizioni secolari tramandate di generazione in generazione. In particolare, nei ristoranti che propongono la cucina giudaico-romanesca, si valorizza un patrimonio storico-culturale che affonda le sue radici nella cucina povera dei secoli del ghetto, quando gli ebrei furono costretti a fare di necessità virtù e a trarre il meglio da ciascuna situazione, a partire dall’alimentazione, dal consumo del pesce povero e delle verdure”.

A TAVOLA SI COMPIE IL MIRACOLO DELLA TRASVERSALITA’ E DELL’ORGOGLIO MADE IN ROMA – Il progetto è stato presentato con la Conferenza Stampa del 20 marzo presso l’Università Mercatorum nello splendido Palazzo Costaguti di Piazza Mattei. Ministero, Regione, Comune e Municipio assieme con altre istituzioni e associazioni di categoria assieme per esaltare e con orgoglio sostenere i prodotti del Made in Italy, un unicum del nostro territorio. Formazione e tradizione da tramandare alle nuove generazioni

Moderati dal giornalista Daniel Della Seta, autore e conduttore della rubrica “L’Italia Che Va…” Radio RAI e della rubrica TV “In Punta di Forchetta…” sono intervenuti davanti a una platea di giornalisti e volti noti del piccolo schermo fra i quali Anna Maria Palma, ospite di Unomattina creatrice di Tu Chef, Valter Giammaria, presidente Confesercenti Roma e Lazio; On. Angelo Rossi, Consigliere del Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare; Giancarlo Righini, Assessore Regionale Agricoltura Regione Lazio; Alessandra Sermoneta, Vice Presidente I Municipio Roma Capitale; Carlo Hausmann, Direttore di AgroCamera; David Granieri, Presidente Coldiretti Lazio; Giovanni Cannata, Rettore dell’Università Mercatorum; Alessandro Onorato, Assessore Grandi Eventi, Sport, Turismo e Moda Roma Capitale; Claudio Pica, Presidente FIEPET; Angelo Di Porto, Presidente Assoturismo Roma.

Al taglio del nastro fissato per il 28 marzo alle 11 sono attesi Francesco Lollobrigida, Ministro dell’Agricoltura e della Sovranità Alimentare, e Mara Venier, entusiasta sostenitrice della manifestazione vivendo da tanti anni nel quartiere ebraico.

Chiamato anche “cimarolo” o “mammola”, il carciofo romanesco è da sempre considerato il re dell’orto e fiore all’occhiello della cucina romanesca.

La tipica zona di produzione è il litorale laziale con i comuni di Cerveteri e Ladispoli (a circa 40 km di distanza da Roma), ma anche Allumiere, Campagnano, Civitavecchia, Fiumicino, Santa Marinella, Tolfa e Roma ed alcuni comuni di Latina (Sezze, Priverno, Sermoneta e Pontinia) e Viterbo (Montalto di Castro, Canino, Tarquinia). Tutte queste aree sono da sempre vocate alla sua produzione grazie al clima mite, ai terreni di medio impasto, umidi e ben drenati nonché ricchi di ferro.

Appartenente alla famiglia Cynara Scolymus è una pianta erbacea perenne, che può durare oltre dieci anni, coltivata in due cultivar: Castellammare e relativi cloni (il cui periodo di produzione è inizio gennaio) e Campagnano e relativi cloni (periodo di produzione marzo-aprile). La parte edule del carciofo è l’infiorescenza, o capolino, caratterizzata da una forma sferica e compatta, da foglie di colore verde violetto, senza spine e da un cuore morbido e tenero. Ha un odore di erbaceo spiccato e qualità organolettiche inconfondibili: un sapore erbaceo e leggermente amarognolo che man mano ci si avvicina al cuore, diventa più dolce.

La coltivazione richiede molte cure da parte dei cinaricoltori che effettuano una raccolta manuale che ha inizio a gennaio e si protrae fino a maggio. Dopo la raccolta, per apprezzarne appieno il gusto e la qualità, va consumato freschissimo e non conservato a lungo in frigorifero. Al momento dell’acquisto è bene scegliere carciofi pieni e sodi, con foglie dure e ben serrate e senza macchie. Se sono molto freschi e hanno il gambo lungo è possibile immergerli nell’acqua come si farebbe con i fiori freschi.

Il carciofo è una pianta originaria dei paesi del Mediterraneo orientale, sulle cui origini abbondano ipotesi e congetture. Molti affermano che a iniziarne la coltivazione furono gli Egizi (che pare lo utilizzassero largamente come pianta medicinale), altri sostengono siano stati gli Etruschi, come sembrerebbero testimoniare le raffigurazioni parietali di foglie di carciofo in alcune tombe della necropoli etrusca di Tarquinia.

Accenni al carciofo si rintracciano nella storia greca e romana. La mitologia greca ne narra la nascita attraverso la leggenda di Cynara, una ninfa bellissima che fece invaghire di sé Zeus che, geloso, la trasformò in ortaggio verde, spinoso ma dal cuore tenero. Il filosofo greco Teofrasto (III sec. a.C.) decanta le virtù dei cardii pineae, mentre Plinio il Vecchio nel I sec. d.C. accenna all’uso nella cucina romana. In particolare, nella sua Naturalis Historia, lo storico annovera diverse varietà di cardi e tra essi un tipo che produce “fiori spessi e viola, aventi un unico stelo”, probabile progenitore degli attuali carciofi. Egli elenca anche le proprietà curative dell’ortaggio che oltre ad essere un afrodisiaco e un diuretico naturale avrebbe avuto anche una funzione nella cura dell’alopecia, dell’alitosi, dell’indigestione ed un potere nel concepimento di figli maschi!

Anche Columella nel suo De Re Rustica oltre a descriverne modi, tempi di coltivazione e proprietà fa accenno alle sue proprietà organolettiche. Lo definisce caro a Bacco poiché dopo “un suo boccone il palato è dolce ad ogni tipo di vino”. Nel suo trattato di cucina, De re coquinaria, Apicio riporta spesso i carciofi nelle sue ricette, come quelli conditi con il famoso garum o i cuori di cynara di cui i Romani erano ghiotti se lessati in acqua o vino. Dopo il periodo dell’impero romano, del carciofo si perdono le testimonianze storiche. Furono gli Arabi che lo riportarono in cucina, e non a caso il termine carciofo deriva proprio dall’arabo al-karshuf ovvero “spina di terra” e “pianta che punge”. Molto più tardi, persino durante il Rinascimento si fa riferimento a questo ortaggio. Lo stesso cuoco barocco in Vaticano, Bartolomeo Scappi, ne parla nel suo trattato di cucina ed i viaggiatori del Grand Tour ottocentesco raccontano che nel Lazio al mercato si potevano acquistare 30 carciofi per “un paolo”.

Ma è solo dopo gli anni ‘40 e ‘50 che il carciofo cominciò a diffondersi grazie ad un sistema di coltivazione intensiva, soprattutto nell’area costiera. E proprio a questi anni risalgono le prime saghe dedicate al re dell’orto, come quella di Ladispoli, in cui il carciofo si festeggia da oltre mezzo secolo.

La lunga tradizione colturale di questo ortaggio a Roma e nel Lazio ha fatto sì che il carciofo divenisse un ingrediente basilare della gastronomia romanesca, protagonista di molti piatti tipici.

Se particolarmente fresco e tenero, i romani sono soliti consumarlo crudo, tagliato a fettine e condito con olio e limone. La tradizione lo predilige anche “alla romana”, cotto a fuoco lento e condito con pangrattato, aglio, prezzemolo, pepe e abbondante olio. Ma il piatto più conosciuto a Roma è “alla giudìa” fritto nell’olio con il gambo in alto e bello croccante.

La sua origine è legata a doppio filo alla cucina giudaico-romanesca ed alla comunità ebraica di Roma.

Dare una definizione univoca di cucina giudaico romanesca non è però semplice perché è difficile stabilire dove inizi la cucina ebraica e finisca quella romanesca e viceversa, tanto la vita delle due comunità si è fusa col tempo, anche in considerazione del fatto che la comunità ebraica di Roma è la più antica in Europa e la sua presenza nella città eterna risale al II secolo a. C.

Di certo si tratta di una cucina che rispetta l’insieme delle regole alimentari ebraiche che provengono direttamente dai precetti della Torah: la Kasherut. Essa è inoltre condizionata da forti influssi meridionali e tirrenici e che fondendosi nel tempo con la cucina romana è divenuta una cucina molto elaborata, in parte per trasformare alimenti poveri in piatti gustosi, in parte per la solennità che il cibo ha da sempre rivestito per il popolo ebreo. Si tratta, comunque, di una cucina raffinata ed ingegnosa, resa interessante dalle sue note orientali e dall’uso di ingredienti molto profumati come uvetta, pinoli, cannella e chiodi di garofano. Uno degli ingredienti principali di questa cucina è sicuramente la carne, soprattutto i tagli meno nobili e le frattaglie definite a Roma del “quinto quarto” che prima di essere cucinate venivano in passato ben arrostite sulla graticola per togliere ogni traccia di sangue. Un ruolo importante lo avevano i piatti di pesce, come il brodo fatto con gli scarti del mercato che si teneva proprio sotto il Portico di Ottavia tutti i giorni. Tutti gli scarti delle vendite venivano accatastati nei pressi della chiesa di Sant’Angelo in Pescheria dove le donne ebree andavano a raccoglierli per trasformarli in piatti prelibati. Nei dolci, nell’uso di frutta secca, miele e canditi, si percepisce ancora oggi la tradizione arabo-spagnola e mediterranea.

Un ruolo di tutto rispetto nella cucina ebraica-romanesca lo hanno però soprattutto i fritti: i carciofi, i fiori di zucca impastellati ripieni di mozzarella, i filetti di acciuga ed i filetti di baccalà. Il carciofo alla giudia è forse il piatto più famoso, preparato da tutti i ristoranti del ghetto ed offerto caldo e croccante alle centinaia di turisti che fanno la fila per assaggiarlo.

Nel ghetto ebraico le donne ebree erano solite cucinare le mammole da mangiare alla fine della ricorrenza del Kippur, la festa dell’espiazione in cui per ventiquattr’ore si osserva il digiuno totale ed una preghiera continua.

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