killer di stato e “pupi” da vestire, Genchi in udienza per il depistaggio di via D’Amelio

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Il 10 febbraio 2024 davanti alla Corte d’appello di Caltanissetta è stato sentito come testimone in udienza l’avv.to Gioacchino Genchi, nel giudizio contro i poliziotti Mario Bo, Fabrizio Mattei e Michele Ribaudo.

I tre poliziotti imputati Bo, Mattei e Ribaudo, nel 1992, dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio, fecero parte del c.d. gruppo investigativo “Falcone e Borsellino” come stretti collaboratori del dott. Arnaldo La Barbera che rivestiva il ruolo di Dirigente della Squadra Mobile presso la Questura di Palermo.

In primo grado essi sono stati assolti dai reati loro ascritti (si parla del c.d. “depistaggio di via D’Amelio” ma i reati sono più precisamente quelli previsti dagli artt. 368 c.3 e 416 bis co. 1 del codice penale, ossia la calunnia aggravata e l’associazione a delinquere di stampo mafioso).

Nel corso dell’udienza di appello del 10 febbraio 2024 (Processo d’appello a Mario Bo ed altri (10.02.2024) (radioradicale.it) l’avv.to Gioacchino Genchi, che all’epoca delle stragi in cui morirono nel 1992 i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino era un funzionario della Polizia di Stato, ha – anche se non per la prima volta  – offerto e ricostruito un quadro dei rapporti istituzionali, della qualità delle indagini, dei rapporti con i sospettati di gravi reati e con i pentiti, molto interessante per chi voglia comprendere le dinamiche investigative che si dipanarono in quegli anni, tra la Sicilia e la Capitale.

Con riguardo alle vicende relative a Salvatore “Totuccio” Contorno le parole di Genchi sono state molto forti. E’ però necessario fare una breve premessa, per ricordare l’antefatto senza il quale il racconto del testimone può risultare poco comprensibile.

Contorno era stato un boss mafioso che nel 1984, seguendo l’esempio di Tommaso Buscetta aveva iniziato la sua “collaborazione” rendendo a Giovanni Falcone dichiarazioni che costituirono il riscontro di quelle di Buscetta e contribuirono nel mese di ottobre ad offrire il fondamento di 127 mandati di cattura e 56 arresti eseguiti tra Palermo, Roma, Bari e Bologna colpendo  anche noti commercianti, professionisti e aristocratici.

Grazie alle confessioni dei due pentiti vennero rinviati a giudizio ben 475 imputati, in quello che venne chiamato e viene ormai sempre chiamato “maxiprocesso” per il gran numero di persone coinvolte e di fatti su cui decidere. Il processo si concluse poi nel 1987 con 19 ergastoli e 342 condanne a pene detentive.

Nel 1984 Contorno dopo la sua collaborazione con la giustizia fu estradato negli Stati Uniti ove ricevette dal governo locale una nuova identità, la cittadinanza e altri benefici.

Contorno però nel novembre 1988, nonostante fosse sottoposto negli U.S.A. al programma di protezione, fece segretamente ritorno a Palermo ove rimase a piede libero sino a quando  venne arrestato nel maggio 1989 dai poliziotti comandati dal dott. La Barbera.

Durante il periodo in cui Contorno era rimasto a Palermo a piede libero vennero uccisi a colpi d’arma da fuoco numerosi esponenti dell’ala “corleonese” della mafia, storica nemica di Contorno e delle persone a lui vicine.

Nella prima metà del 1989 furono recapitate a diversi indirizzi istituzionali le lettere anonime redatte dal c.d. “Corvo di Palermo”, con le quali venivano accusati di avere “inviato in missione” il pentito Salvatore Contorno trasformandolo in una sorta di killer di Stato, per stanare Totò Riina capo dei corleonesi, i magistrati Giovanni Falcone, Giuseppe Ayala, il procuratore Pietro Giammanco e l’allora capo della Criminalpol Gianni De Gennaro.

Le lettere del “Corvo” sono state sempre per lo più ritenute portatrici solo di terribili calunnie, finalizzate a disinnescare il Maxiprocesso.

Però Gioacchino Genchi il 10 febbraio scorso ha detto che all’epoca effettivamente Contorno, mentre si nascondeva a Palermo a San Nicola l’Arena, era in costante contatto telefonico con Gianni De Gennaro come venne accertato a seguito dell’intercettazione “di prevenzione” (intercettazione  di polizia prevista dalla legge per casi eccezionali, soggetta solo all’autorizzazione del Procuratore della Repubblica) sulle cabine utilizzate dal pentito.

E non solo, perché Genchi ha anche precisato che il tenore delle conversazioni fra i due era criptico, giacchè il pentito parlava di “babbaluci (lumache) che uscivano le corna”, e di “rugiada”, assolutamente fuori contesto: si trattava dunque di parole e frasi in codice, che dovevano avere per forza un altro significato rispetto a quello apparente. E già questo sarebbe sufficiente per trasecolare.

Ma vi è di più, perché il testimone ha anche riportato che le armi rinvenute dalla Polizia di Stato nel covo di Contorno al momento del suo arresto vennero “portate” dagli stessi poliziotti a Ostia, o in un posto simile, e utilizzate per sparare in mezzo alla sabbia in modo che la sabbia a seguito della deflagrazione alterasse le striature e microstriature della canna rendendo impossibile la comparazione con le armi e i bossoli trovati sui luoghi degli omicidi di mafia che macchiarono Palermo nel 1988, ossia dopo il ritorno di Contorno.

Inoltre la Polizia nemmeno aveva sequestrato tutte le armi presenti nel covo di Contorno, poiché si rese necessaria una seconda perquisizione, eseguita quella volta dai Carabinieri anche su input informale dello stesso Genchi, per rinvenirle tutte.

Poiché secondo il testimone La Barbera nel 1988 anche se formalmente rivestiva l’incarico di dirigente della squadra mobile, dipendeva in realtà direttamente da Roma, dal Capo della Polizia che era allora Vincenzo Parisi, e dava in linea retta le sue direttive allo stesso Genchi che su sollecitazione del Capo della Polizia era divenuto il suo collaboratore pur mantenendo anche lui sulla carta altro incarico, tutto ciò che La Barbera faceva e disponeva non era frutto di autonome decisioni, ma era imposto da Roma, ossia dal Capo della Polizia e dalla c.d. “loggia Contorno”, ossia il gruppo di alti funzionari della Polizia di Stato che si occupavano del pentito, tra cui Gianni De Gennaro ed Alessandro Pansa.

La stessa cosa Genchi ribadirà più volte anche con riguardo alla vicenda del depistaggio a seguito del quale la responsabilità per la strage di via D’Amelio sarebbe stata addossata a Vincenzo Scarantino, ripetendo più volte con veemenza che tutto ciò che La Barbera faceva veniva ordinato da Roma.

“Dobbiamo vestire il pupo”, in questi termini La Barbera si esprimeva ogni qualvolta Genchi sollevasse qualche perplessità sull’operazione investigativa imbastita contro chi, anche secondo un compagno di cella che era stato affiancato a Scarantino proprio dal Capo della Mobile per carpirne informazioni, con la strage di via D’Amelio non c’entrava niente.

Ma “vestire il pupo”, osserviamo noi spettatori di vicende tanto tristi, significa alterare intenzionalmente la verità dei fatti, e ciò che è peggio è che tutto questo sarebbe stato fatto proprio nel corso delle indagini per i fatti criminali più efferati ed eclatanti che abbiano scosso la Repubblica nell’epoca recente, e ad opera degli investigatori più stimati.

Paolo Borsellino sarebbe stato sicuramente preso da ulteriore sconforto, se avesse potuto, anche solo vedendo la propria borsa e il suo contenuto non repertati e fatti girare di mano in mano fuori controllo, o rendendosi conto dei soldi fuori busta che ogni mese venivano erogati a La Barbera, nome in codice “Rutilius” come collaboratore del Sisde, il quale aveva fatto assegnare a Gioacchino Genchi un fuoristrada con targa di copertura, e un’auto velocissima; La Barbera che, secondo Genchi, non amava che i dichiaranti venissero percossi ma non provava altrettanta avversione di fronte alla possibilità di uccidere qualcuno.

2 Replies to “killer di stato e “pupi” da vestire, Genchi in udienza per il depistaggio di via D’Amelio”

  1. Serena ha detto:

    Ottimo articolo. Un’ esposizione dei fatti da brividi quella del dottor Genchi. Nell’articolo è spiegato bene lo scenario in cui sono avvenuti i fatti. La corruzione delle forze dell’ordine è evidente

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