TACCUINO #4
Ha senso parlare di Dèi se questi sono morti e il vanitas vanitatum è mancanza di umanità nel mondo ove tutto fa cassa?
Leggere la psiche non è tradurre. Sentire attraverso intellezione non è interpretare. Perchè traduciamo e interpretiamo la vita? Non debbo chiedermi, ovviamente, come. Questo lo si capisce. Oppure lo si può. O, ancora, lo si potrebbe. In assenza del capire, lo si può – quantomeno – osservare.
La lettura attenta sembra prescindere da confusione, disarmonia e disordine. Ma l’animale in continua decadenza che apprezza ciò che è omogeneo razionale e ordinato, partecipa di attributi quali rischio, disordine, chaos. Una bilancia debole che soffre pesanti lati. E nel tentativo di equilibrio forze fantasiose insegnano a diffidare dell’ingannevole realtà concreta. Nella contemporaneità liquida, periodo povero culturalmente di innocenza e umanità, l’egolatra che non può prestar fede a patti è anche colui che crede nel o al buon Apollo senza capirne il senso, popolando incessantemente il futuro, trasferendo il passato domesticato, in abbandono del Dio Sole e Ermete, sfogando pulsioni per obbedienza a Marte.
Ma è Sileno a ricordare l’inattingibilità di un sapere positivamente definito sull’esistenza. Nell’acconcia società opulenta ove il problema amore universale non muove verso una civiltà pacifica, manichini svestiti si pregiano di buaggine, direttamente proporzionale all’ebbra parossistica malvagità. Ancora traduzione. Ancora interpretazione concettuale di quel che si pensa essere ma non è. In tema amore, non si costituisce concretezza di significato nell’osservanza del viver per senso, ovvero per direzione, giacché si intende tutto e oltre, si riduce o si esalta, ma non si coglie il sottoconcetto di materialità in Amor e Kama, confondendo radici o – per insipienza – pensando a pensiero arbitrario altro. Facile e chiaro capire che il gaglioffo non può far molto per amplificare i pensieri sulla retta via. Urge una metànoia per assumere cura, per raggiungere una risoluzione ai traumi di una civitas che contiene indigeni speciati funzionali che non portano più la sveglia al collo ma il cellulare nella tasca, credendo di usare venendo usati. Meretrici che amano meretrici. Ribaldi che trofeggiano peripatetiche, oggi digitali.
Come possiamo conoscere, schiavi di una istruzione forte di pregiudizi che in cima a castelli istituzionalizzati difende forze minori che con potere si manifestano superiori per dominio? Come guariamo se non sentiamo di esserci e non capiamo dove siamo, disadattati di una catena trofica che muove all’interno di un habitat periglioso. La verità è relativa. Da qui, rivelata, evitarla. Pare sia sempre tutto palesato, ma per gli ognuno mondi odierni, nel mondo che ha prodotto oggi la nuova contemporanea natura dell’uomo in naturalità dell’artificio e della tecnica, seppellendo nelle sabbie del tempo origine e originalità, limitata è l’osservazione di ciò che appare velato. Si vede ciò che si manifesta. Che si veda ciò che è! In questo futuro dell’uomo macchina, che a servizio si domanda della libertà. Il tentativo di partecipare del computo mentale della macchina è simulazione d’essenza che non è artificio, giacché la psiche vive di processi appartenenti dell’indicibile favorendo a posteriori utilità meccaniche, algebriche, alla bisogna.
La tecnica, montata dalla natura, non padroneggia l’algebrico ma sfrutta la circostanza per il fine pre imposto, in assenza di risonanza. Nel caso acceso e dibattuto in materia intelligenza artificiale, nella mia considerazione di intelligenza quale atto, non migliore tra molti, ma l’atto scevro di una scelta, solo e possibile, necessario, capisco così corretta l’attribuzione alla macchina, che manca di intellezione e intuito, delle quali facoltà non partecipa, e dirige il risultato al corretto fine, minato dalla manipolazione umana, la quale partecipa di una complessità altra non conferibile. Il logico matematico potrà riferirsi a Turing, a Gödel, a Penrose, e spingersi a evocare Hobbes per un più alto sfoggio dimostrativo di conoscenza spazio temporale vissuta tra neuroni nel loro partecipar di un duraturo intermittente 0 1. Ma sul conoscitivo divenir, dubito se inteso come crescita e sviluppo formativi dell’ente attraverso spazio e tempo. Penso più a una mancanza vissuta per lungo periodo, che nasconde l’indicibile intimo essere, che si definisce personalità, materia, essere, sostanza, attributo proprio, intima origine.
L’uomo diviene sviluppo di una ricerca che può cogliere sé stesso, attraverso dissonanze che globalmente gli appartengono quali particelle cosiddette accidenti. Sospeso in un vacuo universo psichico che dirige al nulla e che farciamo subissando istanti inconsapevolmente e non, riusciamo ancora a parlar – temporalmente e spazialmente – di limitata esistenza del conoscere, capire, comprendere, scollegati da un universale, un katholikós, un platonico tradotto e interpretato per condurre greggi a ostacolare natura sulla via di storture mentali? Non è forse povero un condizionamento che dimostra una via e chiede di seguirne una, bloccando il libero fluir? Il primo passo verso la libertà è la consapevolezza di sentirsi e dirsi stanchi di sapersi sofferenti.
PsykoSapiens