Dalla Francia alla Germania e all’Austria, negli ultimi mesi l’estrema destra ha ottenuto in Europa consensi crescenti. Tra le sue caratteristiche ha quella – apparentemente singolare – di richiamarsi agli impresentabili del Novecento: figure, simboli o ideologie da tempo oggetto di una condanna morale e politica ampia e trasversale. Nel caso di Afd in Germania e di Fpo in Austria si tratta addirittura del nazismo e di Hitler.
Per Rassemblement nazional in Francia c’è il ricordo della violenza – omicidi, torture, terrorismo – utilizzata per fermare gli algerini in lotta per la loro indipendenza. Nel caso italiano, i richiami sono più indiretti: mancate prese di distanza o calcolate ambiguità nei confronti del fascismo. Sono – è significativo – tutte vicende in cui la guerra ha contribuito, direttamente o indirettamente, a introdurre la violenza nella vita politica. Ma perché evocare o non condannare apertamente, da parte di forze politiche di oggi, questi antenati impresentabili? Sono richiami che, tra l’altro, fanno scattare un “cordone sanitario” in grado, spesso, di escludere chi li fa da responsabilità di governo, come è accaduto in Francia e altrove. Difficile pensare a nostalgie per uomini e vicende che – per motivi anagrafici – quasi nessuno ha conosciuto direttamente.
Le ragioni di questi richiami si radicano nell’oggi. In particolare, in quel sentimento che – nell’attuale “geopolitica delle emozioni”, per dirla con Dominique Moïsi – prevale su tutti gli altri: la paura. È stato un crescendo: prima lo spaesamento della globalizzazione, poi la pandemia di Covid 19 e infine, soprattutto, la guerra. Che scoppia imprevista, dilaga sempre di più, sembra non finire mai, dall’ Ucraina al Medio Oriente, senza dimenticare l’Africa. Fa enorme paura e sembra irresistibile. Ci stiamo arrendendo all’idea dell’inevitabilità della guerra, il che vuol dire del forte che schiaccia il debole in una spirale di violenza senza più regole: prima Bucha, poi il 7 ottobre, poi Gaza, adesso il Libano, domani chissà…La spinta della violenza dal piano internazionale si trasmette ai contesti nazionali. «Nessuno si illuda», ha scritto Massimo Cacciari. «Più si sviluppa questa mentalità di guerra, più difficile sarà difendere, all’interno degli stessi Paesi occidentali, i principi più autentici di uno Stato di diritto».
Più guerra vuol dire meno democrazia, costruzione politico-giuridica che può articolarsi in modi molto diversi ma il cui obiettivo ultimo è contrastare la concentrazione del potere e dominare la violenza attraverso le regole.Sarebbe assurdo immaginare che Mussolini o Hitler possano tornare, non lo pensano neanche coloro che, più o meno velatamente, si richiamano oggi al fascismo o al nazismo, così come nessuno crede che possa tornare quella che Furet ha chiamato l’“illusione comunista”. Ma questi fenomeni politici costituiscono, in Occidente, l’unica alternativa finora realizzata alla democrazia ed evocarli, magari alla lontana, serve per suggerire che è possibile liberarsi dalle “fastidiose” regole democratiche.
Come la divisione dei poteri, il rispetto dell’altro, la libertà di opinione, l’espressione del dissenso, il compromesso con l’avversario, la difesa delle istituzioni, il perseguimento del bene comune, l’inclusione dell’emarginato…Tutte cose inconciliabili con la concentrazione del potere verso cui spinge questo neoestremismo. (Concentrazione che non va confusa con la stabilità di governo, garantita anche da molti Paesi democratica). Come spiegano gli studiosi del totalitarismo, in democrazia il luogo del potere non è più occupato dal “corpo del Re” ma è vuoto e nessuno ha il monopolio delle decisioni. Articolare efficacemente la governance di società complesse “svuotando il potere” è uno delle più grandi conquiste della civiltà occidentale, raggiunta a caro prezzo e di enorme valore.
Dopo aver tanto parlato di nemici che vengono dall’esterno, oggi l’Occidente deve fronteggiarne uno che viene dall’interno, corrodendo le sue conquiste più importanti e minandone la sua stessa identità.Come si può parlare di un grande scontro mondiale tra libertà e autocrazie se crediamo sempre meno alla democrazia? La concentrazione del potere comporta anche un pericoloso scivolamento verso l’uso della violenza: è anche a questo che alludono i richiami agli impresentabili del Novecento i quali, come si è detto, si sono tutti radicati, direttamente o indirettamente, nelle esperienze delle guerre e delle loro conseguenze nella vita civile. La violenza politica, infatti, non si manifesta solo in piazza o lasciando segni sulla pelle e può introdursi nelle leggi, penetrare nelle istituzioni, diventare senso comune. Tutto ciò non garantisce più sicurezza: la paura è sempre cattiva consigliera.Rassegnarsi alla guerra o alterare le regole democratiche non aiuta a governare e rende tutti più fragili.
È importante che la classe politica torni ad imparare dalla storia del XX secolo una lezione valida anche oggi: pace e democrazia sono inseparabili. Se ci rassegniamo alla scomparsa della prima, la seconda è destinata ad indebolirsi sempre di più. Forse a scomparire. C’è bisogno più che mai di una grande iniziativa politica, nazionale e internazionale, fondata su entrambe, che rafforzi l’Europa – storico loro presidio – e promuova nuove forme di coesione. Un’iniziativa che unisca trasversalmente tutte le forze democratiche non intorno a un “cordone sanitario” sempre più esausto ma in un comune rifiuto di qualsiasi violenza e in un condiviso rispetto per tutti gli esseri umani.
Marcario Giacomo
Editorialista de Il Corriere Nazionale