Spigolature intorno al vampiro, alla diva e al clown ispirate da un libro di Riccardo Donati
di Carlo Di Stanislao
Nessun libro non merita di essere letto, ma solo alcuni vanno letti e riletti.
Francis Bacon
I libri, quelli veri, nascondono la verità dietro le parole, per questo vanno letti e riletti, per macerare il testo, frantumare le parole e far emergere la verità. Uno di questi libri, uscito due anni fa, è Il vampiro, la diva, il clown. Incarnazioni poetiche di spettri cinematografici di Riccardo Donati, edito da Quodlibet. Indaga i rapporti tra cinema e poesia da un’angolazione molto particolare e prende in esame tre immagini simboliche tra le più significative per l’immaginario collettivo moderno, e costruisce un percorso ideale tra poesie e poeti.
Questi “spettri cinematografici”, come recita il sottotitolo, sono il vampiro (e in particolare quello “archetipico” di Vampyr di Carl Theodor. Dreyer); la diva, nella sua incarnazione più celebre e assoluta, e cioè Marilyn Monroe; e il clown per antonomasia del cinema del Novecento: lo Charlot di Charlie Chaplin. E li contrasta con l’opera di grandi poeti contemporanei. Così la parola si fa inquadratura e il cinema sprigiona la sua magnetica poesia.
I poeti presi in esame, influenzati, affascinati, ossessionati da queste icone dell’immaginario, sono alcuni tra i maggiori del nostro Novecento: Saba, Govoni, Pasolini, Sanguineti, Zanzotto, Gatto, Luzi, Magrelli. In tutti loro queste immagini provenienti dalla settima arte si sono fatte “emozioni mediali” e si sono trasformate, in vario modo, in parola poetica. Nel caso poi di Pasolini la parola si è fatta carne ed è divenuta cinema e cinema immenso, fatto di anima che emerge dalla carne e dal sangue. Vediamo gli accostamenti.
I vampiri poetici di Carl Theodor Dreyer: Luzi e Sanguineti.
Uno dei portati più significativi del cinema, come arte della modernità, è quello di aver creato un nuovo immaginario collettivo; un immaginario che è andato con forza ad affiancarsi, e spesso a sostituire, quello poetico e romanzesco. Ecco allora come le suggestioni date da un film come Vampyr (versione cinematografica di due novelle di Sheridan Le Fanu) rimodellano i topoi romantici e gotici della poesia moderna. Donati si sofferma in particolare su due poeti, influenzati entrambi (in maniera assai differente) da questo film; più nello specifico l’ispirazione parte da una sequenza di questo film, forse la sua più celebre: quella onirica dello “sdoppiamento” del protagonista, che comporta una moltiplicazione dei punti di vista che fa di questo momento uno dei più elevati del cinema del regista danese.
Questa sequenza entra ad esempio in una poesia di Luzi, in cui il cinema di vampiri sembra fondersi con suggestioni leopardiane. Ma si ritrova anche in Edoardo Sanguineti, o in Zanzotto. Donati dimostra come la poesia nel Novecento smetta di nutrirsi di sola poesia, come aveva fatto per secoli, ma sposta la sua “arte allusiva” verso il nuovo medium, ne percepisce e acquisisce le tecniche e ne fa rivivere con le parole i “fantasmi” di luce. In particolare la tecnica del montaggio cinematografico pare assestarsi bene all’interno dell’officina dei poeti moderni. Lo stesso Sanguineti, non a caso, aveva parlato del Novecento come “secolo del montaggio”. Montaggio e multimedialità portano insomma la poesia del Novecento su strade nuove: è merito del cinema e della sua dirompente e radicale affermazione come macchina creatrice di miti.
Marilyn e la poesia tra Pasolini e Sanguineti
La mitologia diventa un nuovo misticismo davanti alla figura della diva. La diva è etimologicamente una dea, e quindi figura eterea ed irraggiungibile, nonostante la sua carnalità. E inevitabilmente questo discorso, se lo si lega con quello poetico, vivifica nuovamente quel “filo del petrarchismo” che, dice Donati, percorre tutta la cultura italiana del Novecento in in maniera poi non tanto occulta. Qui Donati coglie un aspetto fondamentale quando scrive che “una ricca vena di ‘petrarchismo divistico’ che ha fatto di alcune star hollywoodiane altrettante Laure da celebrare” è un filone importante nella nostra poesia del Novecento. È un nuovo petrarchismo che rinnova (e forse esaspera) il topos della distanza tra la donna e il poeta; ma non solo: la diva è anche la star-merce, un’immagine fatta, metaforicamente, a brandelli nella sua brandizzazione e mercificazione.
In questo spicca la Marilyn di Pier Paolo Pasolini. La sua Marilyn, infatti, è bellezza ingenua e primitiva, eternamente bambina in un mondo di adulti-divoratori. Al di là del substrato freudiano, la volontà di farne un mito è fortissima; un emblema di vitalità “altra” nel mondo mortifero della società dei consumi. Scrive Donati che la Marilyn di Pasolini è “figura ancestrale, arcaica, di martirio, precedente la secolarizzazione capitalistica”. La poesia su Marilyn non per niente è cronologicamente vicina a Il Vangelo secondo Matteo, e sarà inserita, in una celebre sequenza, ne La Rabbia (recitata da Giorgio Bassani).
Di altro genere è la Marilyn di Sanguineti, così come la si ricostruisce “per frammenti” (o dovremmo dire fragmenta) nell’antiromanzo Il Giuoco dell’oca. Per frammenti, appunto, che sono la base del petrarchismo, in molti sensi. Uno di essi è quella frammentazione del corpo per opera dello sguardo (maschile) del poeta, che è uno dei fondamenti della poesia erotica moderna. Ne Il Giuoco dell’oca la “sequenza” di Marylin è una fortunata composizione del topos della descriptio puellae con le tecniche del montaggio cinematografico; montaggio veloce, fatto di flash rapidi, di immagini scomposte (tra cinema e cubismo) che scorrono velocemente su quel filtro ulteriore che è lo schermo.
Charlot e la poesia
Charlot è forse una delle ossessioni cinematografiche maggiori dei poeti del Novecento. Il personaggio portato sullo schermo da Charlie Chaplin ha avuto un’importanza seminale nell’immaginario collettivo del XX secolo, letterario e non solo. Chaplin è un punto di riferimento, ad esempio, per Pasolini, che ne assimila certe idee anche nei suoi film; si pensi solo ai film con Totò o allo Stracci de La Ricotta. E il personaggio-Charlot, nella poetica pasoliniana, rientra, come Marilyn, in quella mitologia di purezza primitiva ed incorrotta in cui anche la diva trovava spazio.
Donati individua un evoluzione del personaggio Charlot, e scrive che se agli esordi i poeti vedevano in Charlot un personaggio dostoevskiano, per i poeti che esordiscono “tra le guerre e alla metà del secolo” Charlot si inserisce “nella triade dell’alienazione delineata da Benjamin sin dagli anni trenta: Kafka, Charlot, Brecht”. Ma Charlot è davvero multiforme, e Donati si sofferma molto su una delle realizzazioni poetiche più riuscite, e cioè quella di Andrea Zanzotto. Lo Charlot di Zanzotto è anarchico e ribelle; nella poesia il clown chapliniano si carica di astuzia boccaccesca e di “scaltrezza di schietta pasta contadina”. Ancora una volta, insomma, il cinema rimodella la tradizione letteraria attraverso nuovi miti pronti dialogare con il portato della tradizione. In questo il libro Donati offre una valida chiave di lettura su un tema non secondario nella poesia del Novecento, quello dei rapporti transmediali, e rintraccia i motivi principali di questa multimedialità poetica.
Quaranta anni fa Pasolini ha scritto che esiste un cinema di prosa, lucido, preciso, razionale, e uno di poesia, diretto e appassionato.Al primo appartengo autori come Godard e Bellocchio, al secondo Truffaut e Bertolucci. In entrambi i casi grande cinema, ma… ho sempre avuto una predilezione per il secondo: Chaplin più di Griffith e Matarazzo più di Pastrone.