Trump e tutti gli altri

Politica

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di Raffaele Gaggioli

Sebbene manchino ancora due mesi alla sua nuova inaugurazione presidenziale, il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca sta già avendo numerosi effetti sia dentro, sia fuori gli Stati Uniti.

Per cominciare le varie correnti politiche all’interno del partito democratico si stanno incolpando a vicenda per la pesante sconfitta subita in queste elezioni presidenziali. Non solo Trump ha vinto il voto popolare (il primo candidato repubblicano ad ottenere questo risultato dal 2004), ma i democratici hanno perso anche in molti Stati tradizionalmente considerati liberali (Wisconsin, Michigan e Nevada).

Peggio ancora, i repubblicani hanno trionfato anche nelle varie elezioni per il Senato e la Camera, garantendo a Trump il controllo delle principali istituzioni politiche statunitensi. A differenza del suo primo mandato (2016-2020), Trump dovrebbe essere in grado di approvare le sue proposte politiche senza alcun problema anche grazie alla presenza di una maggioranza conservatrice all’interno della Corte Suprema.

In generale, queste elezioni presidenziali sono state dominate dall’apatia di molti elettori democratici. Mentre il numero di voti vinti da Trump è rimasto inalterato rispetto al 2020 (circa 74 milioni di voti), la Harris ha ottenuto meno voti rispetto a Joe Biden anche negli Stati vinti dai democratici (per esempio in Colorado dove circa 300.000 sostenitori del quarantaseiesimo presidente non si sono recati alle urne quest’anno).

La portata di questa sconfitta ha quindi scatenato un pesante dibattito all’interno del partito democratico.

Il primo a lanciare l’attacco è stato Bernie Sanders, politico democratico progressista del Vermont, che ha accusato il suo partito di aver abbandonato i lavoratori americani. Secondo il senatore, l’unico modo in cui il partito democratico può sopravvivere è adottare politiche economiche più progressiste, come l’approvazione del salario minimo e l’imposizione di più tasse sui miliardari americani.

Al contrario, parte del partito democratico è convinta che l’unico modo per riprendersi sia spostarsi più politicamente a destra. La stratega democratica Julie Roginsky sostiene infatti che la Harris sia stata sconfitta a causa delle sue posizioni eccessivamente politicamente corrette, soprattutto per quanta riguarda i diritti LGBTQ+ o il rifiuto di distanziarsi dalle proteste filo-palestinesi degli studenti universitari.

Una parte del partito democratico sembra però convinta che non c’è alcun bisogno di adottare nuove idee politiche. Secondo questa versione, la sconfitta elettorale del 5 novembre era inevitabile a causa delle cattive condizioni dell’economia e dell’incapacità di Harris di distanziarsi dall’impopolare Biden.

Per questo motivo, il partito democratico dovrebbe solo aspettare le elezioni midterm del 2026. Queste elezioni tendono a punire il partito del presidente in carica, il che dovrebbe permettere ai democratici di riconquistare il Senato e la Camera.

Il dibattito su cosa fare ora che Trump è di nuovo presidente sta ovviamente avvenendo anche al di fuori dei confini statunitensi. Molte delle politiche promesse da Trump potrebbero infatti complicare notevolmente i rapporti tra Washington e la comunità internazionale.

Durante la campagna elettorale, Trump ha infatti promesso l’imposizione di numerosi dazi doganali sulle merci provenienti dall’Unione Europea, la Cina e da altri Paesi stranieri. Le tariffe dovrebbero riguardare circa il 20% di tutte le importazioni, anche se la cifra potrebbe salire per quanto i riguarda gli scambi commerciali con Pechino.

Oltre all’imposizione di dazi, l’Unione Europea è anche preoccupata per le posizioni filo-russe di Trump relativamente al conflitto in Ucraina. Il nuovo presidente americano ha più volte lodato Putin negli ultimi otto anni e ha sostenuto proposte di pace favorevoli agli interessi del Cremlino.

La nuova proposta del tycoon newyorkese prevede la cessione a Mosca di tutte le regioni ucraine attualmente occupate dall’esercito russo (corrispondenti a circa il 20% del territorio nazionale dell’Ucraina), la creazione di una zona demilitarizzata lunga 100 km tra le due nazioni e il divieto a Kiev di entrare nella NATO per i prossimi vent’anni.

La proposta è già stata rifiutata dal governo ucraino in quanto non offre alcuna garanzia per la sicurezza del Paese esteuropeo. Tuttavia, la più che probabile sospensione degli aiuti militari da parte di Washington potrebbe costringere il presidente Zelensky ad accettare queste condizioni.

A differenza dell’Unione Europea e dell’Ucraina, il governo israeliano ha pubblicamente celebrato il ritorno di Trump alla Casa Bianca. Non solo Trump è convinto che Tel Aviv dovrebbe avere maggiore libertà d’azione nel conflitto contro Hamas, ma ha anche sostenuto più volte che Israele dovrebbe espandere ulteriormente i suoi territori attraverso l’annessione della Striscia di Gaza e di parte del Libano meridionale.

In tutto questo caos, la Cina sembra considerare il ritorno di Trump alla Casa Bianca sia come un problema, sia come un’opportunità. Da un lato, la nuova guerra commerciale con Washington rischia di danneggiare la sua economia.

Dall’altro lato, i dazi americani stanno costringendo i Paesi Europei a riallacciare i rapporti commerciali con Pechino in modo da proteggere le loro economie da ulteriori danni. Inoltre il nuovo isolazionismo americano potrebbe favorire le ambizioni espansionistiche di Pechino contro Taiwan.

Se non altro, i prossimi quattro anni promettono di essere pieni di imprevedibili sviluppi.

Raffaele Gaggioli

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