Umani e macchine alla ricerca di una coscienza nel tempo dell’IA

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Da Landolfi ai replicanti di Blade Runner, il quesito, sempre più pressante, sull’intelligenza e la coscienza. L’intelligenza artificiale vista come una riflessione sulla nostra umanità pronta a ridefinire i confini tra ciò che è naturale, e ciò che è artificiale.

Dal Mondo – Tommaso Landolfi, nel suo labirintico racconto “Le due zitelle“, solleva un interrogativo, Possiamo davvero afferrare l’anima di un animale, scorgere la scintilla del pensiero nei suoi occhi? L’antropomorfismo, quel comodo abito che ci permette di proiettare le nostre emozioni sugli altri, rischia di velare la complessità dell’esistenza altrui.

Oggi, con l’avanzare della tecnologia e conseguentemente dell’intelligenza artificiale, l’interrogativo si fa ancora più incalzante. Longo, infatti, spinge l’essere umano ad immaginare un’intelligenza svincolata dal corpo, capace di provare emozioni e dotato di pensiero autonomo. Ma come possiamo comprendere un’intelligenza che potremmo in qualche modo definire “aliena” perchè non radicata in un corpo biologico e in un’esperienza sensoriale simile alla nostra?

Blade Runner, film di fantascienza neo-noir epico americano del 2017 diretto da Denis Villeneuve, ambientato nell’anno 2049, segue K, un replicante interpretato da Ryan Gosling, che lavora come Blade Runner per il LAPD. Questo film, affascinante ed inquietante, ci proietta in un futuro in cui la distinzione tra umano e artificiale si fa sempre più labile. Replicanti che sognano, amano, e addirittura, soffrono: ma sono davvero solo macchine sofisticate o nascondono un barlume di coscienza?

La domanda che sorge spontanea è: chi ha il diritto di parlare a nome di un altro essere, umano o non umano, quando non possiamo accedere ai suoi pensieri e alle sue esperienze? E se l’intelligenza non fosse univoca, ma si manifestasse in forme infinite e inaspettate?

Alan Turing, padre fondatore dell’informatica, affrontò questa questione con un approccio pragmatico. Anziché cercare una definizione definitiva di intelligenza, propose un test, negli anni ’50, noto come test di Turing, volto a stabilire se una macchina è in grado di imitare così bene un essere umano da ingannarci.

Ma come funzionava il test?

Immaginiamo una conversazione testuale tra essere umano e macchina con un terzo soggetto che osserva, inconsapevole, chi dei due sta conversando. Se quest’ultimo non è in grado di distinguere con certezza l’umano dalla macchina, allora la macchina avrebbe superato il test.

Ma questo test, tuttavia, non risolve il problema fondamentale. Anche se una macchina superasse il test, potremmo ancora dubitare della sua reale comprensione del mondo e delle sue esperienze.

Se il test di Turing rappresenta un tentativo di aggiornare la riflessione cartesiana sull’intelligenza, proponendo un criterio empirico e operativo per valutare le capacità cognitive, anche in assenza di una conoscenza approfondita dei processi mentali sottostanti, l’ombra di René Descartes, aleggia ancora sui dibattiti sull’intelligenza artificiale. Il filosofo francese, con la sua lucidità cartesiana, aveva già intuito il baratro che separerebbe un’automa, per quanto sofisticato, da un essere umano. Il linguaggio, quell’arma esclusiva dell’uomo, e l’adattabilità, frutto di una ragione libera e creativa, sarebbero, secondo lo stesso, le mura invalicabili che delimitano il regno dell’intelligenza artificiale.

Ed oggi, messi di fronte a chatbot che compone poesie e algoritmi che imparano a giocare a scacchi meglio di qualsiasi campione, le intuizioni di Descartes sembrano vacillare. Le macchine, un tempo semplici strumenti, si sono via via trasformate in compagni di conversazione, assistenti personali e persino artisti digitali.

Ma quanto sono davvero intelligenti?

Il problema non è tanto se le macchine possano pensare, ma piuttosto cosa intendiamo con il termine, pensare. Se il pensiero si riduce alla capacità di elaborare informazioni e produrre risposte coerenti, allora molte macchine moderne potrebbero già essere considerate intelligenti. Ma se il pensiero implica anche coscienza, autocoscienza e un’esperienza soggettiva del mondo, allora il cammino verso l’intelligenza artificiale è ancora non solo molto lungo ma soprattutto, tortuoso.

Le macchine possono simulare il pensiero, ma possono davvero provare emozioni, avere desideri o aspirazioni? Possono comprendere il significato profondo delle parole che utilizzano? Queste domande inquietanti che ognuno di noi si pone, mettono in discussione i fondamenti stessi della nostra identità. Se le macchine dovessero davvero un giorno superare l’uomo in termini di intelligenza, cosa significherebbe essere umani? E quali sarebbero i nostri valori, i nostri obiettivi, la nostra stessa ragione di esistere?

È evidente che le macchine stanno superando i nostri limiti in molti campi, calcolano più velocemente, memorizzano più informazioni e riescono a risolvere problemi complessi in modi che noi non riusciremmo mai nemmeno ad immaginare. Ma questa intelligenza è diversa dalla nostra, è un’intelligenza artificiale, basata su algoritmi e dati, che imita il nostro modo di pensare ma non lo replica in toto.

Emozioni, desideri, coscienza sono tutti elementi intrinsecamente legati alla nostra esperienza umana. Nascono dalla nostra biologia, dalle nostre relazioni, dalla nostra storia. Le macchine, per quanto sofisticate, ne sono prive. Possono simulare l’empatia, ma non possono provare compassione. Possono generare testi poetici, ma non possono comprendere la bellezza della poesia.

Ma se le macchine continuassero ad evolversi, superandoci in ogni ambito, cosa ci rimarrebbe? Cosa renderebbe ognuno di noi ancora unici? Forse la nostra capacità di amare, di creare arte, di trovare significato nelle piccole cose della vita. Forse la nostra fragilità, la nostra vulnerabilità, la nostra capacità di sbagliare e di imparare dai nostri errori.

L’intelligenza artificiale ci sfida a ripensare il nostro posto nel mondo costringendoci ad interrogarci su ciò che ci rende umani ma allo stesso tempo ci invita a riflettere sul futuro che vogliamo costruire, un futuro in cui l’uomo e la macchina possano coesistere in armonia, ciascuno con le proprie peculiarità e i propri limiti.

Il percorso verso l’intelligenza artificiale è un labirinto che si dirama in mille sentieri. Potremmo creare macchine sempre più simili a noi, fino a sfidare i confini tra umano e artificiale. Oppure potremmo ancora scegliere di tracciare una linea invalicabile, preservando l’unicità della nostra specie.

In entrambi i casi, una domanda incombe: cosa significa essere umani in un mondo dominato dalla tecnologia? La nostra identità, finora definita dalla nostra capacità di pensare, amare e creare, potrebbe essere messa in discussione da macchine sempre più sofisticate.

I criteri con cui misuriamo l’intelligenza sono come sabbie mobili. Ciò che oggi consideriamo un segno di intelligenza, domani potrebbe apparirci banale o addirittura limitato. La nostra concezione dell’intelligenza è, in fondo, il riflesso della nostra cultura, della nostra storia e persino, dei nostri pregiudizi.

Forse, invece di cercare risposte definitive, dovremmo abbracciare l’incertezza coltivando la curiosità, ascoltando le diverse voci che compongono il nostro mondo e rispettare la complessità della vita, in tutte le sue sfaccettature.

Il futuro di ognuno di noi è un foglio bianco di un quaderno bianco sul quale stiamo scrivendo, un’avventura da vivere insieme. E la domanda su cosa significhi essere umani sarà la nostra bussola, la stella polare guida del nostro viaggio in questo mondo pieno di incognite.

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