La “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne” è stata istituita dall’Onu il 17 dicembre 1999 in ricordo delle sorelle domenicane, attiviste politiche, Patria, Maria Teresa e Minerva Mirabal, soprannominate “mariposa” (farfalle). Le tre sorelle il 25 novembre 1960 si stavano recando a far visita ai mariti in prigione, sulla strada vennero bloccate da agenti del Servizio di informazione militare e condotte in un luogo nascosto, stuprate, torturate a colpi di bastone e strangolate. Furono poi gettate dalla loro auto per simulare un incidente. Quella strage segnò probabilmente la fine della dittatura di Rafael Leonidas Trujillo, che a sua volta fu assassinato il 30 maggio dell’anno successivo.
L’Assemblea generale delle Nazioni Unite, invitando tutti i Governi, le Organizzazioni Internazionali e le Ong a organizzare nella giornata del 25 novembre le diverse attività per sensibilizzare l’opinione pubblica sull’importanza della non-violenza e del rispetto delle donne, ha definitivamente suggellato il fallimento del femminismo. Movimento che nacque a seguito della pubblicazione del libro “Il secondo sesso” di Simone de Beauvoir e negli anni ’70 del Novecento cercò di diventare un rinnovamento culturale, con l’intento di emancipare e trasformare la società occidentale. Questo movimento si dimostrò subito carente e imperfetto, rifiutando di offrire un panorama culturale fondato su un nuovo e diverso ordine simbolico. Le intellettuali femministe, impegnate a reinterpretare la storia delle donne e delle tradizioni culturali che nei secoli le avevano viste emarginate, decisero di non “rivedere” l’assetto dei significati e impliciti valori, posti dall’uomo/maschio, che sul piano concreto hanno dato origine ai ruoli e ai comportamenti sessuali.
Questa operazione, dalla immensa portata culturale, sociale e storica, avrebbe dovuto infatti, decostruire l’intero edificio su cui si erano formate le categorie “maschile” e “femminile”, rigettarle e dalle ceneri elaborare un nuovo sistema di riferimento. Le studiose insomma, avrebbero dovuto togliere mattone dopo mattone, capirne la ricaduta nella storia, cancellare l’intero edificio prodotto dal modello proiettivo maschile e ricostruirlo in un diverso assetto simbolico, magari più consono al punto di vista femminile. Questa elaborazione intellettuale è mancata. L’antropologa Ida Magli nei suoi variegati studi indicò una via da percorrere, fu osteggiata più che inascoltata. Le femministe hanno così trascinato le donne nella trappola del furto. L’emarginazione della figura femminile nella storia ha indotto le teoriche del movimento a pensare che usurpando al maschio gli aspetti più connotativi del suo comportamento e riconoscimento in ambito sociale, si sarebbe arrivati automaticamente, attraverso salti e passaggi irrisolti, alla agognata emancipazione e ad incarnare persino il Potere stesso.
Ma era inevitabile, questa strada ha condotto al corto circuito di immagini sovrapponibili in cui il maschile e il femminile hanno cominciato a fondersi in maniera sempre più pervicace e nella graduale con-fusione dei ruoli, il dissolvimento delle peculiarità di genere ha permesso l’imporsi del maschio omosessuale. Anzi, ancor di più della figura del transgender, che imponendosi anche grazie a una massiccia propaganda, ha schiacciato definitivamente, svuotandola di senso, l’identità femminile. Una identità prodotta nei secoli dall’immaginario maschile, artefice dei significati simbolici e culturali, grazie al sistema “proiettivo” che gli pertiene biologicamente. La donna li ha incarnati rispondendo così a modelli ad essa assegnati. Ma per liberarsene era appunto necessario elaborarne dei nuovi. Il rifiuto a comprendere l’importanza di questo passaggio cruciale, ha comportato che il paradigma di riferimento in cui essa ha continuato a riconoscersi ed essere riconosciuta, restasse unicamente quello maschile. A sua volta impoverito da una figura femminile ad esso sempre più simile, che si appropria della “vir”, senza contrapporre altro, a quell’unico modello. La supremazia della potenza maschile è stata tale da poter assumere in sé anche il femminile e la vittoria dell’omosessualità che ne è scaturita, sta a dimostrare l’inevitabile esito e punto di rottura attuale.
L’antropologo francese Claude Lévi-Strauss, ci ha spiegato che la donna è oggetto di scambio, perciò parola, comunicazione per l’intero gruppo, ovviamente fertilità, fino a incarnare l’idea stessa di trascendenza/salvezza, ricorda Ida Magli nei suoi vasti studi. Ma un’immagine femminile quasi sovrapponibile a quella maschile, è di per sé perdente, in quanto “maschio imperfetto”. L’omosessualità è dunque la conseguenza di un’emancipazione femminile fallimentare, che paradossalmente ha fatto emergere la vera “potenza”: quella del pene. Nel rapporto con l’altro, il maschio effeminato, ma provvisto di “vir” ed il maschio travestito addirittura al femminile, ma sempre munito di organo sessuale, risultano vincenti. Il trionfo del pene è infatti totale e pervasivo. Nelle società occidentali i mezzi usati per programmare e propagandare tutto ciò sono stati feroci. D’altronde, questo processo, funzionale alla nuova religione del de-popolamento, ha inesorabilmente indotto alla misoginia, tratto che accomuna i maschi di tutte le culture. Quella cristiana ovviamente si differenzia poiché alle sue spalle c’è Roma e Atene, baluardo di civiltà e diritti della persona che hanno permesso all’Occidente il particolare itinerario della consapevolezza individuale e scoperta del sé.
L’attuale conflitto tra i generi è il prodotto di tutto questo. L’uomo cerca nella donna la rappresentazione di un’idea/forma che gli permette di ritrovare sé stesso, dato che l’ha forgiata nel lungo e complesso percorso culturale. Ma la figura femminile in quell’immagine è svanita e poiché non ne è stata creata un’altra, l’emancipazione a imitazione del maschile che ha assunto, è deludente. La tragicità della società occidentale potrebbe essere prodotta dal richiudersi su di sé della figura maschile, che azzerando la parola/donna, quella che ha permesso al gruppo di usufruire dello scambio simbolico, e creare significati e cultura attraverso la comunicazione, non gli permetterà di salvarsi.
Apparentemente, a consolare l’immaginario maschile pare restino ancora gli strumenti rappresentativi della virilità, nelle sue emanazioni per eccellenza, quali il gioco politico per mantenere il Potere, quello del denaro per guidare saldamente l’economia e le armi per quello della guerra. Ma tali strumenti si stanno rivelando sempre più sterili, svuotati di valore, comunque mortiferi. La figura femminile, immersa nella sua vasta solitudine, priva di quell’aura di salvezza che l’ha sempre identificata, è adesso addirittura espropriata del proprio corpo, della sua parte più intima e inviolabile quale l’utero. Oggetto ormai di una tra le tante multiproprietà delle potentissime lobby omosessuali che la cultura dominante coccola e sprona per divorare la donna.
Rosaria Impenna