E noi, cosa avremmo fatto?
Bimba Palestinese intervistata da Zahra Kadham per il podcast “In una parola”
Testo e Foto di Alessandra Gentili
Tra le numerose manifestazioni per il “cessate il fuoco”, una mi ha colpito più di tutte. Quella in cui i bambini sono stati coinvolti in modo attivo. Una manifestazione pro-Palestina in cui i bambini sventolavano bandiere e cartelli “cease-fire” con finte ferite dipinte sulla testa. Ballando e cantando musiche del loro folklore portavano un messaggio di speranza. Attraverso le rappresentazioni i rifugiati ci fornivano uno scorcio della loro cultura rivendicando, in questo modo, la loro visibilità.
Perché hanno necessità di rendersi visibili, perché farlo in questo modo coinvolgendo i bambini? Questo mi ha fatto riflettere su come la disuguaglianza sociale spinga alcune comunità a ricorrere a mezzi estremi per attirare l’attenzione. Ed e’ una considerazione applicabile in qualsiasi contesto, non solo in una comparazione tra Occidente e Medio Oriente.
Il primo impatto
Il primo impatto nel vedere quei bambini in mezzo a una manifestazione, ha generato in me una critica negativa. “Come si fa a portare i bambini a una manifestazione?” ho pensato. Ma stando li, osservandoli, ho capito che la mia considerazione era molto semplicistica. Sono stata combattuta tra sentimenti contrastanti, tra giudizio e ammirazione, mentre cercavo di dare un senso a ciò che vedevo.
Intervista alla bambina palestinese a cura di Zahra Kadham
https://www.facebook.com/zahra.kadham.5/videos/1621852182008204/?app=fbl
Questa bambina in abito folkloristico, con una ferita in testa dipinta, ha vissuto la guerra. Ha affrontato un viaggio per arrivare nel Regno Unito, non un viaggio di piacere ma una fuga carica di incertezze. E allora, mi dico: “…dopo questo, cosa può mai essere per loro una manifestazione! Può danneggiarli più di quanto non sia già accaduto?” Quando già la loro infanzia e’ stata irrimediabilmente violata da forze esterne al loro controllo, si possono forse giudicare i genitori che decidono di coinvolgerli in una manifestazione per gridare il loro dolore?
Anche se l’esempio in questo articolo e’ riferito alla situazione palestinese, questa considerazione e’ applicabile a tutti i popoli che sono travolti dalla guerra. Il Fondo delle Nazioni Unite per l’Infanzia, più noto come UNICEF, analizza costantemente la situazione dei bambini nel mondo. Facendo una piccola ricerca nel loro sito si può trovare una scheda informativa sulle conseguenze della guerra sui minori. Questo il link:
https://www.unicef.ch/it/come-aiutare/programmi/i-bambini-guerra
In questa scheda si parla di bambini feriti o uccisi, di bambini soldato, di violenza su minori, di minori non accompagnati e di infanzia violata. Poi ho trovato anche una prospettiva differente. Un articolo su come parlare loro della guerra:
https://www.unicef.ch/it/attualita/blog/2023-10-12/come-parlare-ai-bambini-di-guerra
Questo però non e’ un articolo sui bambini che sono dentro la guerra e la vivono. E’ un articolo per i bambini, per quelli che, pur vivendo lontano, sono investiti dalla natura delle notizie e delle immagini dei media. L’articolo fornisce consigli su come affrontare con loro l’argomento guerra e suggerisce di accertare quanto loro sappiano, prima di addentrarsi in una spiegazione. Questo nel lodevole scopo di non traumatizzarli più del necessario. Che incredibile differenza!!!
Il ruolo delle circostanze
E così nonostante la dimensione dell’infanzia sia una, non e’ possibile usare un solo metro di valutazione perché dipende dalle circostanze. Non ho potuto fare a meno di riflettere su come la sofferenza agisca sulle scelte delle famiglie. Una famiglia che decide di coinvolgere i propri figli come visto nel video, e’ il riflesso di cosa esattamente? Del silenzio o dell’inazione (o azione) di chi nella guerra non e’ direttamente coinvolto? Forse queste famiglie non vedono altre vie di uscita per farsi sentire? Potrebbe essere un atto disperato nel tentativo di far vedere al mondo la vulnerabilità di chi e’ intrappolato in una guerra di cui non ha alcun controllo? E mi trovo a pensare quanto sia sottile il confine tra il trauma, e un potenziale risveglio civico: in questo senso il coinvolgimento dei bambini potrebbe essere loro di aiuto? Potrebbe aiutarli a dare un nome a ciò che provano e a capire che esistono modi alternativi per lottare, anche se simbolicamente, per un futuro migliore?
Quante domande!
Partendo da queste domande forse la partecipazione dei bambini rifugiati alle manifestazioni può essere letta come una testimonianza collettiva di una condizione che non e’ più possibile ignorare. Ma resta sempre un tema divisivo carico di contrasti etici e morali. Quindi, concludendo, per esporre un figlio a tutto questo ci vuole disperazione, coraggio o speranza? E noi, cosa avremmo fatto al loro posto?
Si precisa che le immagini utilizzate per questo articolo, che ritraggono i bambini, sono state realizzate solo dopo aver chiesto l’autorizzazione ai rispettivi genitori. Si precisa inoltre che nessun compenso e’ stato percepito per queste immagini, che le stesse non sono in vendita su alcuna piattaforma stock, ma disponibili per chi volesse utilizzarle a scopo editoriale previa autorizzazione delle autrici.
Personalmente credo che queste manifestazioni servono a strumentalizzare un orrore già vissuto e non bisogna accentuare ciò che la psiche deve cancellare.
La chiave per determinare se la partecipazione a una manifestazione sia benefica o dannosa per il bambino dipende dal suo livello di maturità emotiva e dalla capacità di comprensione. A mio parere, se i genitori, dopo aver valutato questi aspetti, ritengono che l’esperienza possa essere positiva, potrebbe aiutare il bambino ad affrontare e elaborare il trauma in modo sano.
Cara Barbara, grazie per aver risposto alla domanda! Effettivamente è quello che anch’io ho sempre pensato. Soprattutto quando ci toccano i figli, il primo impulso è sperare che dimentichino tutto, se hanno vissuto una brutta esperienza.
Tuttavia, approfondendo l’ argomento, ho avuto modo di leggere le posizioni degli psicoanalisti sul disturbo post-traumatico da stress. In particolare sulle conseguenze che esso crea se l’evento che ha causato la fase di stress anziché essere elaborato viene rimosso.
A questo punto, mi sono detta, questa decisione di far partecipare i bambini alla manifestazione, potrebbe funzionare come forma di elaborazione?
Non lo so ma alcune mie certezze si sono sgretolate.
Un caro saluto
Si Alessandra hai ragione, domande infinite e certezze sgretolate di fronte ad un unico grande pilastro secondo me : perché gli adulti sentono il bisogno di manipolare questi bambini? A quale pubblico si stanno rivolgendo e perché? Questo certamente non per il loro bene.
Noi avremmo solo polemizzato a lungo al loro posto, con la conseguente immobilità che da qualche anno a questa parte ci contraddistingue.
Cara Silvia, condivido l’ultima parte del tuo commento. Non sono certa che i genitori sentissero il bisogno di manipolare i propri figli.Il mio personale pensiero sull’argomento e’ che, in particolare i genitori rifugiati, siano sotto shock tanto quanto i loro figli. Essere per lungo tempo in una situazine di shock, vivere la vita e quella dei propri figli come punto interrogativo costante, finirebbe per stremare chiunque fisicamente e psicologicamente. Secondo te una manifestazione puo’ creare piu’ danni dei bombardamenti? Certo qui si potrebbe aprire un dibattito interessante…..magari prossimamente. Grazie per il tuo pensiero.
L’articolo affronta un tema complesso, ponendo domande che, in parte, trovano risposta nelle riflessioni proposte. È vero che l’infanzia è universale per tutti i bambini, ma non può essere valutata con un unico parametro. I bambini che hanno vissuto la guerra non sono più “bambini” nel senso che intendiamo noi, e lo stesso vale per i genitori che l’hanno vissuta: la loro esperienza li ha trasformati, lontani anni luce dal nostro concetto di genitorialità. Esiste dunque una differenza abissale tra noi e loro. L’articolo si interroga sul significato di portare i figli a una manifestazione pro-Palestina, con un ruolo attivo: è disperazione, coraggio o speranza? A mio parere, è tutte e tre queste cose insieme, purché non venga letta come una “strumentalizzazione”. Questo mi ricorda una scena del film La Ciociara, in cui la madre (interpretata da Sofia Loren) solleva la gonna della figlia dodicenne per mostrare lo scempio subito dalla bambina, simbolo dell’assurdità della guerra. Era questa strumentalizzazione? No, era disperazione.
https://www.raiplay.it/video/2016/08/La-ciociara-55ece3d6-3bb0-47c1-98e2-aa816f14e26d.html?wt_mc%3D2.app.cpy.raiplay_prg_La+ciociara.%26wt
Grazie per il tuo contribuito e per aver condiviso il film. Nonostante le dinamiche delle due narrazioni siano diverse, penso si possa cogliere lo stesso messaggio nella scena del film di Vittorio De Sica, e nel libro di Moravia da cui e’ stato tratto, e cioe’ la disperazione di un genitore che tenta di proteggere il proprio figlio in un momento di vulnerabilita’. Ed ancora, fa riflettere sul fatto che dovremmo contestualizzare ogni situazione, prima di trarne una interpretazione.
La chiave per determinare se la partecipazione a una manifestazione sia benefica o dannosa per il bambino dipende dal suo livello di maturità emotiva e dalla capacità di comprensione. A mio parere, se i genitori, dopo aver valutato questi aspetti, ritengono che l’esperienza possa essere positiva, potrebbe aiutare il bambino ad affrontare e elaborare il trauma in modo sano.
Ciao Alessandra.Infatti, non incoraggio i bambini a uscire in cortei di massa e a mostrare scene terrificanti o sanguinose per esprimere una realtà lontana dalla loro vita,
e tutti sanno che ciò ha
effetti psicologici sul loro futuro.
Thanks Jameel, your perspective is particularly interesting, considering your status and experience. Feel free to share more with us.