di Barbara Rinaldi
Un viaggio tra le strade gelide, raccontando le vite dimenticate di chi affronta l’inverno senza una casa.
REPORTAGE: NATALE SENZA TETTO è ciò che ho raccolto da un invisibile per le strade della provincia di Foggia.
Mentre ero alla ricerca di un parcheggio nelle vicinanze dell’ospedale di San Severo, mi sono imbattuta in un uomo seduto ai margini della strada e lo chiamerò Paolo un nome fittizio per rispettare la sua privacy, e accettato di parlare con me. Il dialogo si è articolato nel modo seguente: la prima domanda che gli ho posto : perché vivi per strada?
Paolo: <È difficile dare una risposta breve. Nessuno si immagina mai di finire così. Avevo una vita normale, un lavoro. Poi, una serie di cose sono andate storte. Ho perso il lavoro durante la pandemia. Mia moglie se n’è andata. Quando perdi tutto, un pezzo alla volta, finisci per non sapere più come ricominciare>.
Ti sei rivolto ai servizi sociali?
<Certo. Ma i dormitori sono pieni, soprattutto d’inverno. Quando fa freddo, siamo troppi. Alcuni preferiscono restare fuori perché dentro ci sono regole rigide, e a volte hai paura che ti rubino quel poco che hai. Almeno per strada so dove mettere i miei sacchi e nessuno mi disturba>.
Com’è la vita in strada durante le festività?
<Peggio del solito. Il freddo non è l’unico nemico. A Natale, il mondo sembra più distante. Vedi le famiglie passare, le vetrine piene di regali, i bambini che ridono. E tu sei lì, invisibile. È come guardare la vita da una finestra. Ti senti fuori da tutto>.
Secondo te, cosa spinge una persona a diventare clochard?
<Non c’è una sola ragione. Per alcuni è la povertà improvvisa, per altri problemi di salute mentale o dipendenze. Io ho avuto una depressione che non ho mai curato. Ho iniziato a bere, e tutto è andato a rotoli. In un attimo ti ritrovi senza più appigli>.
Cosa vorresti dire a chi leggerà questa intervista?
<Di guardare le persone senza casa con occhi diversi. Non siamo solo numeri o spazzatura ai margini delle città. Ognuno ha una storia. E chiunque, anche voi, potrebbe trovarsi un giorno in questa situazione>.
Alla fine si è congedato e mi ha ringraziato per averlo ascoltato, ma soprattutto sono stata io a ringraziarlo per essersi disposto a parlarmi della sua vita.
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Dietro ogni storia di strada si nasconde una trama complessa, fatta di eventi spesso imprevedibili. C’è chi ha perso il lavoro e non è più riuscito a rialzarsi, chi ha affrontato un divorzio o la fine di una relazione che ha sgretolato ogni sicurezza. Altri, invece, hanno lottato contro malattie mentali, dipendenze, traumi mai davvero elaborati. La strada, in molti casi, non è una scelta, ma l’ultima fermata di un lungo precipitare.
I servizi sociali esistono, ma spesso non bastano. I dormitori sono pieni, i posti limitati, e non tutti riescono ad adattarsi alle regole rigide imposte dalle strutture di accoglienza. C’è chi preferisce il freddo della strada piuttosto che la paura di perdere le proprie poche cose o di vivere in spazi sovraffollati e alienanti.
Più del gelo fisico, ciò che consuma lentamente chi vive per strada è l’invisibilità. Durante le feste, questo dolore si amplifica. Le città si riempiono di famiglie, regali, cene e luci. Per chi non ha nulla, ogni angolo diventa uno specchio che riflette la propria solitudine. Il Natale, che dovrebbe rappresentare un momento di unione, diventa per molti un simbolo di esclusione.
I clochard restano figure isolate, come fantasmi in un mondo che non li riconosce più. I passanti affrettano il passo, distolgono lo sguardo. È più facile non vedere.
Rialzarsi da una vita di strada è complicato. Senza un indirizzo, diventa quasi impossibile cercare lavoro. Senza lavoro, non ci sono soldi per un affitto. Senza un luogo dove lavarsi o cambiarsi, ogni opportunità sfuma prima ancora di iniziare. È un circolo vizioso che spesso trascina giù chiunque vi cada dentro.
Le istituzioni, nonostante gli sforzi, si trovano a fronteggiare un’emergenza che sembra non avere fine. I progetti di reinserimento sociale sono lenti, e non sempre riescono a raggiungere chi ne ha davvero bisogno.
In questo scenario, ci sono però voci che si alzano, mani che si tendono. I volontari, le associazioni di strada, i gruppi di cittadini che distribuiscono pasti caldi e coperte, sono una luce in un contesto spesso cupo. Non risolvono il problema alla radice, ma regalano momenti di umanità.
Le persone che scendono in strada per aiutare raccontano storie di incontri che lasciano il segno. Offrire una zuppa, un sacco a pelo, o anche solo qualche minuto di ascolto, può fare la differenza. La speranza, per chi vive ai margini, si aggrappa spesso a questi piccoli gesti.
Il reportage termina con una riflessione inevitabile: cosa possiamo fare, come società, per cambiare questa realtà? Non basta la beneficenza stagionale, né le campagne natalizie di raccolta fondi. È necessario un cambiamento culturale, una nuova consapevolezza che ci ricordi che nessuno è immune dal rischio di cadere.
La povertà non è un fallimento individuale, ma una questione collettiva. Riconoscere l’umanità di chi vive per strada è il primo passo per costruire città più giuste e solidali.
Vanno aiutati i tanti volontari, a Bari in centro vedevo un camper che distribuiva pasti la sera in alternativa al centro in ristrutturazione…purtroppo c’è anche chi si vende il cibo del “banco alimentare” come ho visto ieri a Striscia la Notizia e tra ubriaconi, drogati e questuanti di ogni tipo, non si sa chi aiutare perchè ha veramente bisogno.
Come giustamente dici, la poverta’ non e’ un fallimento solo personale ma collettivo. La responsabilita’ collettiva risiede nel fatto che, in quanto societa’, invece di ridurre il livello di disuguaglianza, tendiamo ad aumentarlo ogni giorno di piu’ con il nostro paradigma culturale. E’ infatti un problema culturale l’incapacita’ di comprendere che le persone ai margini partono da opportunita’ diverse rispetto alle persone che ritengono di aver avuto successo nella vita. E chi produce le opportunita’, se non la societa’? La nostra e’ una societa’ iniqua e, come tale,non puo’ produrre equita’. Mancando l’equita’, non riesce a sviluppare un terreno fertile per un reale cambiamento.