Giacomo Leopardi (1798 – 1837) rimane uno di quei poeti che, a tutt’oggi, può essere amato o esecrato, compreso o criticato ma non può lasciare indifferenti quei cuori romantici che pur “sentendo” sentimenti uguali a quelli provati dal poeta nel corso della sua vita, non possono non fare i conti con le dicotomie che nascono dalle differenti visioni del mondo: quella del poeta e quella dei giovani o meno giovani di oggi. Massimo esponente del Romanticismo italiano, egli si riteneva più vicino al classicismo ma, indipendentemente dal giudizio che il mondo contemporaneo può dare di lui, Leopardi rimane una figura chiave della poesia mondiale per la dolcezza con cui ha saputo affrontare un tema caro agli antichi e ai contemporanei: il tema dell’infinito. E non è un caso se la fiction “Leopardi – il poeta dell’infinito”, miniserie televisiva italiana ispirata alla vita del poeta marchigiano, trasmessa in prima visione il 7 e 8 gennaio 2025, contenga nel suo titolo la poesia forse più celebre di Leopardi, atta a districarsi eternamente come monumento d’insuperata dolcezza: quella vera dolcezza che, a buon diritto, possiamo chiamare dolcezza poetica, oggi più rara di quello che si pensi. Personalmente non sono un cultore di Leopardi né della poesia romantica italiana ma, leggendo “l’Infinito”, non riesco a non pensare a quelle visioni di spazio e a quelle armonie di suono che questo grande componimento poetico riesce ancora a trasmettere a distanza di quasi duecentosei anni dalla sua composizione. Perché “l’Infinito” di Leopardi rimane, forse, il suo Canto più elevato, scritto in gioventù e capace di raccontare il puro sentimento dell’immensità. Ed è proprio su questo Canto d’insuperata dolcezza che voglio soffermarmi.
Scritto nel settembre 1819 e pubblicato, prima che nell’edizione del 1831, nel “Nuovo Ricoglitore” di Milano nel dicembre 1825, il poeta vi trascrive un’emotività universale contenuta in soli quindici versi di endecasillabi sciolti. La dolcezza del poeta è profonda ma contenuta quando egli trascrive il suo sentimento dell’infinito, dell’immensità, accolto in un animo illeso: senza precisi riferimenti a questo o a quell’avvenimento ma solo al pensiero dello scorrere e del mutare, della vita e della morte, di un “risuonare” poiché lo spazio immaginato e astratto ha un suo perenne vento che lo percuote e risuona. Il mondo de “L’Infinito” è un grande fremito di suoni e moti indistinti. Di fronte a un mondo di indeterminati spazi e profondissima quiete qual è quello descritto dal poeta, interviene il vento che stormisce tra le piante. E il vento è uno dei massimi protagonisti di questa grande lirica leopardiana: il vento dà l’idea dello scorrere delle cose. Qui, il vento genera e sviluppa l’idea del tempo, nello spazio e nella quiete. Qui, la visione è lo spazio e il suono è il tempo. E ci porta ad un’idea dell’infinito non più spaziale ma temporale: l’eternità. L’infinito del poeta si articola appena nelle due grandi e vaghe immagini delle morte stagioni e di quella viva, presente con l’unico suono reale che esso possa avere, cioè quello della stagione presente al poeta. Il vento evoca le stagioni morte ma canta quella presente: il suono è della stagione presente. Il lettore si immerge nell’idea-pensiero di questo infinito ma, prima, s’immerge quasi fisicamente nella sua aria celeste e ne coglie il suono, quasi un rombo dell’armonia delle cose senza fine, del mondo senza fine, infinito. Il poeta non si annega in un’immensità vuota ma si perde in quella dimensione eterna che ha un aspetto e un suono che sono estratti dall’animo stesso dell’autore e nella quale per poco il cuore immaginifico del poeta stesso non impaurisce(“ove per poco il cor non si spaura”). Si avverte in quel “per poco” una tenerezza e dolcezza che sa quasi di gioia. Lo spazio più che l’idea dell’infinito, e anzi quel trapasso in cui lo spazio si traduce nel tempo e quest’ultimo nello spazio, sono cantati dal poeta come si canta un mito.
Il poeta di Recanati sarà certamente più intellettualmente profondo in altre opere ma mai poeticamente più intenso che in questa poesia dove l’eternità è racchiusa nella mente stessa di Leopardi, in un susseguirsi di ritmi, lievità e riprese. L’immensità dello spazio si fonde qui con quella del tempo: il poeta si sente vibrare di dolce paura di fronte a quella visione mescolata alla sua immaginazione. Un ultimo particolare fonico da notare è che nei quindici versi di questa poesia si trovano in abbondanza le parole “questo” e “quello”: “quest’ermo colle, questa siepe, di là da quella… queste piante, quell’Infinito silenzio, questa immensità, questo mare”.
Il sentimento di immensità che travolse la mente di Leopardi nel 1819 è qualcosa di così umanamente e psichicamente universale da rendere “l’Infinito” una breve poesia in cui tutti, giovani e anziani, adulti, uomini e donne, possono ritrovare a distanza di più di duecento anni il proprio sentimento dell’eternità, quel dubbio o meraviglia soggettivi che ci colgono quando osserviamo il grande, misterioso spazio della natura. Chi non si è mai sentito travolgere il cuore e ossigenarsi la mente alla visione di una solitaria montagna? E da quali pensieri d’immensità è stato travolto in quell’attimo? E non gli è forse stato caro e irrinunciabile il “naufragare” del suo cuore a una tale visione?
Yari Lepre Marrani