L’Italia tra le spire della guerra e la solitudine del comando

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Nel torbido crepuscolo della civiltà europea, allorché i fragili equilibri di un mondo un tempo dominato dalla fermezza dei grandi uomini si sgretolano sotto il peso dell’incertezza, l’Italia si ritrova ad affrontare un momento fatale. Il piano ReArm Europe, partorito tra le ombre di Bruxelles e ratificato con la solennità di chi sa di camminare su un filo sospeso sull’abisso, segna il punto di svolta di una strategia che sa più di disperazione che di lungimiranza.

Non vi è più certezza nelle alleanze di un tempo, né sicuro rifugio nella protezione di quell’America che, nella sua titanica ritrosia, si ritrae sdegnosa, lasciando il Vecchio Continente a fronteggiare da solo il proprio destino. Come un colosso esausto che abbandona le sue vestigia imperiali, gli Stati Uniti si volgono in se stessi, e l’Europa, rimasta senza guida, non può far altro che volgere lo sguardo alle proprie misere forze.

Così, tra il clangore delle cancellerie e il tumulto di parlamenti ormai disillusi, il governo italiano si appresta ad abbracciare la spietata logica del riarmo, sospinto non dalla volontà di potenza, ma dalla cruda necessità di non soccombere. Attualmente ferma all’1,57% del PIL, la spesa in difesa si avvia a sfiorare il raddoppio entro il 2027, portandosi a 65 miliardi di euro l’anno. Ma qual è il prezzo di questa corsa alla militarizzazione?

L’Esercito italiano, la Marina, l’Aeronautica, ridotte per anni a presidiare missioni di pace, si trovano ora dinanzi alla spaventosa prospettiva di dover reggere un conflitto ad alta intensità. Le parole del generale Carmine Masiello, riecheggiate nelle austere sale del Parlamento, suonano come un monito: 40.000 uomini in più sarebbero necessari per garantire la sopravvivenza in uno scenario di guerra aperta.

Ma quale spirito, quale ardore muove le scelte di chi governa? La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, che un tempo si illudeva di poter fungere da ponte tra l’Europa e l’America, si trova oggi prigioniera di un ruolo che la relega a mera comparsa nel grande teatro della geopolitica. Né la sua determinazione né il suo orgoglio possono mutare l’impietoso verdetto della storia: se il destino dell’Europa sarà deciso dalla forza, allora saranno uomini come Macron, Starmer e Merz a stringere il timone del comando, lasciando l’Italia ancora una volta in attesa di ordini, spettatrice passiva della propria disfatta.

E mentre la Schlein, esangue erede di un pacifismo in disfacimento, tenta invano di conciliare sogni di progresso con la necessità incombente della guerra, la patria nostra giace nella sua solitudine, priva di quella voce che un tempo faceva tremare le corti d’Europa.

Così, tra illusioni infrante e cinismi calcolatori, il Belpaese si prepara a varcare la soglia di un nuovo ordine mondiale, non come attore ma come pedina, non come arbitro ma come suddito. L’ora è tarda, e il tempo degli uomini d’onore sembra ormai svanito nel vento.

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