Sogni eretici
Il concetto di “sogni eretici” trova in Giordano Bruno la sua più emblematica espressione. Il Nolano non si limitava a contestare la dottrina dominante; il suo pensiero, rivoluzionario e iconoclasta, sfidava il dogma con una tale radicalità da condurlo inevitabilmente al rogo. Per Bruno, l’eresia non era solo una deviazione dalla norma, ma una visione alternativa, un’utopia che, nel suo ardore, si infrangeva contro la spietatezza del potere costituito. La sua sorte non fu solo una condanna fisica, ma l’epilogo tragico di un sogno troppo grande per l’epoca in cui visse.
Oggi, a secoli di distanza, il meccanismo della condanna non è cambiato: chi sfida l’ortodossia politica, chi tenta di sovvertire equilibri consolidati, viene bruciato sulla pubblica piazza, non più con le fiamme ma con il logoramento, la delegittimazione, la resa senza onore. Il caso di Elly Schlein ne è un esempio contemporaneo.
Il suicidio politico di Elly Schlein
Schlein ha incarnato un’illusione, quella di una sinistra nuova, radicale, inclusiva, ma alla fine si è trovata prigioniera del solito inferno di correnti, faide e guerre fratricide. Come Bruno, ha creduto in un’idea, ma il fuoco dell’eresia interna al Partito Democratico sta divorando la sua leadership, trasformando la sua esperienza politica in un calvario senza redenzione.
Il voto sul ReArm Europe Plan ha rappresentato il momento della sua catabasi, la discesa negli inferi. L’ordine di astensione non è stato rispettato da dieci eurodeputati del Pd, scatenando una reazione a catena che ha messo in discussione la sua autorità. Non una semplice divergenza, ma una rivolta aperta. Schlein, come un condannato alla tortura, ha cercato di rispondere con la minaccia del congresso, un estremo tentativo di ribaltare il tavolo prima che il tavolo ribaltasse lei. Ma l’odore di sangue ha già scatenato i predatori.
Nel Pd, la misericordia non esiste. Il partito si comporta come una bestia famelica che sbrana i suoi leader non appena mostrano segni di debolezza. È successo a Veltroni, a Bersani, a Zingaretti, e ora tocca a lei. Ogni segretario viene eletto con l’illusione di un mandato pieno, salvo poi scoprire di essere solo un reggente provvisorio, utile fino a quando non diventa d’intralcio.
Una resa dei conti senza pietà
Le ultime ore di Schlein ricordano la tetra atmosfera di Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600: il condannato sa di essere stato tradito, sa che le sue parole non serviranno più a nulla, ma non può sottrarsi al destino. Il Pd è un tribunale dell’Inquisizione senza indulgenza, dove la minoranza riformista ha già iniziato a intagliare la croce del supplizio. Piero Fassino e Claudio Petruccioli parlano di errore madornale, Arturo Parisi descrive il partito come paralizzato, mentre la minoranza ringrazia pubblicamente gli eretici del voto europeo.
Le alternative sono due: morire lentamente, lasciandosi logorare, oppure tentare una battaglia disperata, evocando un congresso che potrebbe trasformarsi in un plebiscito suicida. Ma la storia del Pd insegna che i ribaltoni non portano bene, e il paragone con il Papeete di Salvini è già sulle labbra dei suoi avversari.
Nel mentre, le truppe avversarie si preparano: Pina Picierno e Antonio Decaro vengono già indicati come possibili successori. La guerra è dichiarata, i generali sono pronti.
L’illusione spezzata
Schlein ha creduto di poter guidare il Pd con un modello innovativo, ma la realtà si è dimostrata molto più brutale. Non esiste uno spazio per una sinistra progressista unitaria all’interno di una macchina costruita per il cannibalismo politico. Non c’è pietà, non c’è riconoscenza, non c’è solidarietà: il partito è un’arena dove vince chi azzanna per primo.
Come Bruno, Schlein ha osato troppo. Ha tentato di imporre una visione che non è mai appartenuta al corpo stesso del Pd, e ora sta pagando il prezzo di quell’eresia. Il suo sogno sta per dissolversi tra le fiamme di una guerra intestina, e quando le ceneri si poseranno, qualcun altro salirà sul palco, pronto a ripetere lo stesso destino.