Dieci voci retrospettive per raccontarsi: il cinema secondo Moretti al Petruzzelli

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E’ stata una mattinata densa di attesa quella al Teatro Petruzzelli, dove ogni poltrona era occupata e l’aria vibrava di curiosità. Nanni Moretti, accolto da un pubblico entusiasta, ha preso la parola dopo la proiezione di Ecce Bombo, il film che nel 1978 lo aveva imposto all’attenzione del cinema italiano. Ma, a sorpresa, non ha parlato né di attualità né di politica. Ha preferito guardarsi indietro, con la calma di chi ha molto vissuto e molto osservato.

Non un commento sul presente, ma un viaggio personale: una narrazione in dieci tappe che ha intrecciato aneddoti, riflessioni e quella sottile ironia che da sempre lo accompagna. “Vi racconto una storia, la mia“, ha detto con semplicità, lasciando intendere fin da subito che sarebbe stato un dialogo a una sola voce, ma sincero.

I suoi primi passi, li ha ripercorsi partendo da un piccolo grande oggetto: il Super 8. Un mezzo spartano, lontano dalle facilitazioni tecnologiche di oggi. “Girare era come scattare con una Polaroid“, ha ricordato, mentre descriveva la difficoltà – quasi l’impresa – di mostrare quei primi lavori. Uno di quei momenti si è trasformato in un ricordo vivido: nel 1973, durante le Giornate degli Autori a Venezia, portò alcuni cortometraggi, e alla fine della proiezione si rese disponibile a rispondere a domande. Nessuno si presentò. Quel vuoto diventò poi la scintilla di una celebre battuta pronunciata in Io sono un autarchico: “No, il dibattito no”. Ma quella frase, oggi, è solo un sorriso a posteriori.

In quella fase iniziale, aveva tre certezze: raccontare ciò che conosceva, prendersi gioco anche del proprio mondo e non rimanere dietro la cinepresa, ma attraversarla, mettersi in scena. Non come attore nel senso classico, ma come presenza viva.

A un certo punto, ha parlato del mestiere di regista. Non ha mai pensato di compiacere il mercato: ha sempre cercato di realizzare i film che lui stesso avrebbe voluto vedere. Il suo sguardo si era posato inizialmente sul rigore dei fratelli Taviani, poi si era lasciato incuriosire da un autore agli antipodi come Carmelo Bene.

Scrivere, all’inizio, era un processo solitario, quasi naturale. Ma negli anni, quella solitudine ha lasciato spazio alla condivisione. A partire da La stanza del figlio, ha scelto di lavorare insieme ad altri sceneggiatori. “Non è solo scrittura – ha raccontato – è un percorso umano“.

E quando il pubblico lo confonde con i suoi personaggi? “Capita spesso”, ha ammesso. Come quando in Caro diario afferma: “Io sono il più grande”. In tanti pensano che parli di sé. In realtà, citava Mohamed Ali. Ma è un errore che accetta con indulgente ironia, quasi fosse parte del gioco.

Alla fine dell’incontro, tra lunghi applausi, il direttore del festival Oscar Iarussi gli ha consegnato il premio Bif&st – Arte del Cinema. Un riconoscimento che non è solo per i suoi film, ma per la coerenza con cui, da sempre, Moretti attraversa il cinema: come autore, come produttore, come spettatore. Ma, soprattutto, come uomo che ha saputo raccontarsi – in questa mattinata barese di lucido scirocco – con disarmante verità.

Massimo Longo

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