Nel silenzio che segue un festival, spesso resta nell’aria una scia di bellezza non ancora evaporata. E così, il Teatro Petruzzelli, ancora intriso dell’atmosfera viva del Bif&st appena concluso, si è trasformato nuovamente in un crocevia di emozioni, grazie alla presenza magnetica di Stefano Bollani. Il suo “Piano Solo Tour” non è stato solo un concerto: è stato un esperimento, una festa, un rito imprevedibile dove la musica si è fatta carne, pensiero, sorriso.
Chi conosce Bollani sa che nessuna serata è uguale alla precedente. La scaletta? Un concetto superfluo. La struttura? Un pretesto per smontarla. Il pianista milanese è un funambolo dell’improvvisazione, un artista capace di trasformare ogni brano in un organismo vivente, che si muove, cresce, sboccia sotto le sue dita. E proprio Blooming, il titolo del suo ultimo disco edito da Sony Music, sembra riassumere il senso profondo di questo concerto: una fioritura continua di idee musicali.
Durante la serata, Bollani ha attraversato generi, epoche, continenti. Ha reso omaggio a giganti come Chick Corea, ai King Crimson di In the Court of the Crimson King, ai Beatles – con una toccante e jazzatissima versione di While My Guitar Gently Weeps – fino ai grandi autori brasiliani, da Jobim a Edu Lobo, passando per la carezza ritmica della Bossa Nova. Tutto filtrato dalla sua cifra inconfondibile, fatta di libertà e ironia, intuizione e rigore. Una cifra che ormai merita un nome proprio: bollanizzare. Ovvero: prendere un brano, qualsiasi brano, e trasformarlo in un piccolo universo parallelo. E con lui, ogni universo resta aperto, fluido, permeabile.
Il pubblico osservava rapito. A tratti Bollani si alzava dal sedile, come in trance, scosso da un’energia che sembrava venire direttamente dal cuore del pianoforte. I tasti non erano semplicemente suonati: venivano esplorati, spinti, sollecitati con passione. Il pianoforte diventava così corpo, voce, spazio teatrale. Un’estensione fisica del suo spirito musicale.
Il momento più spiazzante – e insieme esilarante – è arrivato sul finale, quando il concerto si è trasformato in una jam session surreale. Bollani ha chiesto al pubblico di gridare titoli di brani da suonare: senza battere ciglio, li ha presi uno dopo l’altro e li ha cuciti in un medley geniale e folle. Si è passati da Ufo Robot a Nel blu dipinto di blu, dalla sigla dei Puffi a Rapsodia in blu un massimo comun divisore colorato, sa Garota de Ipanema, fino a un altro gioiello dei Beatles, Something, in una rilettura elegante e struggente. E come se non bastasse, ha imitato perfettamente la voce roca e strascicata di Paolo Conte, declamando uno per uno i titoli urlati dalla platea, in una finta rassegna da varietà radiofonico d’altri tempi. Il pubblico rideva, batteva le mani, partecipava come in un concerto jazz di New Orleans, dove tutto può succedere.
Difficile incasellare un artista così. Stefano Bollani è un prestigiatore che non nasconde i trucchi, un pianista che gioca con la musica con la stessa serietà con cui un bambino costruisce un castello di sabbia. Ogni nota è una possibilità, ogni pausa una promessa. E quando tutto sembra finito, lui trova ancora un modo per stupire.
Così, bollanizzare non è solo un neologismo. È un invito. A guardare la musica – e forse anche il mondo – con occhi nuovi.
Massimo Longo