
Back view of happy athletic man and his senior father walking embraced while exercising in nature. Copy space.
Nel cuore del dibattito giuridico e sociale contemporaneo si agita un interrogativo tanto scomodo quanto imprescindibile: il mantenimento dei figli maggiorenni rappresenta ancora un dovere genitoriale o, al contrario, sta divenendo il riflesso di un’irresponsabilità generazionale tollerata troppo a lungo?
Nel nostro ordinamento, l’obbligo di mantenere i figli non termina con la maggiore età, bensì con il raggiungimento della autosufficienza economica. Si tratta di un principio nobile, radicato nei valori costituzionali di solidarietà familiare. Tuttavia, quando tale obbligo si protrae sine die, rischia di degenerare in una forma di sostentamento parassitario, priva di legittimazione sociale e giuridica.
L’emblema di questa deriva è rappresentato dalla categoria dei cosiddetti NEET — acronimo anglosassone che designa i giovani “Not in Education, Employment or Training”, ovvero non inseriti in alcun percorso di istruzione, lavoro o formazione. In Italia, dove questa fascia di età (15-29 anni) registra numeri allarmanti, la figura del “figlio eterno” è divenuta simbolo di un disagio sociale profondo, che si riflette anche nei contenziosi familiari, come dimostrano le numerose pronunce del Tribunale di Velletri in materia di revoca dell’assegno di mantenimento.
Non è un caso, dunque, che la giurisprudenza di legittimità abbia intrapreso una decisa opera di razionalizzazione, mirando a riequilibrare diritti e doveri all’interno del nucleo familiare. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 29264/2022, ha chiaramente affermato che il mantenimento non può trasformarsi in una rendita vitalizia. A un certo punto, è il figlio a dover dimostrare — e non solo dichiarare — di avere fatto tutto il possibile per rendersi autonomo.
Ancora più incisive sono le ordinanze n. 26875/2023 e n. 12952/2016, le quali segnano un’inversione dell’onere probatorio: non spetta più al genitore dimostrare l’inutilità dell’assegno, ma al figlio adulto dimostrare di aver diritto a continuare a riceverlo. E qui interviene una presunzione sociale prima che giuridica: superata la soglia dei trent’anni, l’idea stessa di “mantenimento” perde progressivamente legittimità, salvo eccezioni concrete e provate.
Il principio di autoresponsabilità, ribadito dalla Corte con le ordinanze n. 17183/2020 e n. 2259/2024, rappresenta la chiave di volta di questa nuova visione. Il giovane adulto non ha diritto a procrastinare la propria maturazione aspettando il “lavoro dei sogni”, specie se ciò comporta un sacrificio economico continuativo per genitori ormai in età avanzata o con risorse limitate. La tutela dei figli non può sfociare in un ingiusto sacrificio dei genitori.
In questa prospettiva, l’ordinanza n. 18785/2021 sottolinea come l’assegno di mantenimento non persegua finalità assistenziali incondizionate. Il figlio che invoca tale diritto deve provare non solo l’assenza di reddito, ma anche l’impossibilità oggettiva di procurarselo. L’inerzia, l’indolenza o l’attendismo non possono ricevere tutela giuridica.
Il diritto al mantenimento dei figli maggiorenni si colloca dunque su un crinale sottile tra protezione e deresponsabilizzazione. La sua funzione, nel disegno costituzionale e giurisprudenziale, è quella di accompagnare alla soglia dell’autonomia, non di sostituirsi indefinitamente ad essa. Una società giusta non può tollerare che la solidarietà familiare si trasformi in dipendenza cronica, né che il dovere genitoriale venga sfruttato per legittimare l’inerzia.
Come ricorda la Cassazione, il tempo dell’assistenza incondizionata ha un termine naturale e necessario. Dopo di che, comincia il tempo dell’adultità e della responsabilità. Solo riconoscendo tale passaggio si potrà affermare una cultura della dignità, tanto dei padri quanto dei figli.