Il leader della Cgil si aggira quasi paradossalmente tra gli echi degli Arditi e i fantasmi di Dostoevskij, inseguendo un’ideale di bellezza che non abita più la sua parte politica. E si evince da come, tra accuse al governo, aggressioni e referendum in cerca di quorum, Maurizio Landini incarna il dramma esistenziale di una sinistra smarrita, in cerca di redenzione dove ormai non resta che polvere.
C’è qualcosa di tragicamente arcaico nel volto contratto di Maurizio Landini, qualcosa che richiama l’eco lontana di un tempo in cui morire per un’idea era ancora considerato nobile. Ma oggi, al posto delle trincee fangose del Piave, ci sono i talk-show. Al posto delle bombe a mano degli Arditi, ci sono gli slogan da prime time.
Eppure, il dramma che si consuma nel cuore del leader della Cgil è tutt’altro che farsa. È un vero thriller dell’anima, fatto di incubi ideologici, rimorsi generazionali e cadaveri illustri della sinistra stesi come trofei su un altare che nessuno prega più.
A cercar la bella morte
Un tempo, i reparti d’assalto cercavano la “bella morte”: morire nel pieno del gesto eroico, con onore, con dignità, senza piegarsi mai. In quell’estetica estrema dell’annientamento, c’era però una forma superiore di fedeltà: a un’idea, a un corpo, a una Patria.
Landini, nel suo aggrapparsi ai microfoni, nelle sue invettive contro “fascisti e nazisti”, pare cercare un’eco di quella bella morte della sinistra, in una società che la osserva con distacco, quasi con fastidio. Ma la sua non è un’uscita di scena nobile: è un’agonia stilizzata, tutta tesa a colpire, ma mai a colpirsi davvero.
La sinistra morte della bellezza
E allora si arriva alla morte della bellezza. Non quella estetica, superficiale, da salotto borghese. Ma quella spirituale, quella verità che Dostoevskij affidava alla purezza del principe Miškin: “La bellezza salverà il mondo”.
Ma chi salva la sinistra, se la bellezza è svanita?
Una sinistra che ha abbandonato la lotta per il lavoro – fondamento non solo della Costituzione, ma anche dell’anima umana – in nome di battaglie civili che, per quanto legittime, sembrano smarrire il senso del bene comune, e scivolano sempre più in un’estetica del conflitto sterile, in un individualismo travestito da progresso.
La bellezza – quella che nobilita lo spirito attraverso il sudore, la fatica, il sacrificio – non abita più a sinistra. Forse ha traslocato altrove, forse si è rifugiata nel silenzio, dove non ci sono riflettori.
La frustrazione dell’ultimo sindacalista
Quando Landini irrompe da Floris con le sue parole dure, quando accusa il governo Meloni dopo l’aggressione a Genova, più che rabbia si sente risuonare una tristezza disperata. Il mondo è cambiato. Nessuno difende più “il lavoro” con l’antico furore. Nessuno vede più nella fabbrica, nella trincea del quotidiano, un luogo dove la dignità prende forma.
Landini cammina in un campo di rovine, trascinandosi dietro uno stendardo che non sventola più. Gli alleati – Schlein, Conte – lo accompagnano con sorrisi da circostanza, come figuranti in un film di Monicelli, versione “Amici Miei – la fine della sinistra”. Tutti sanno che non si combatterà davvero.
Thriller politico o tragedia greca?
Il leader della Cgil si è trasformato in un personaggio dostoevskijano, diviso tra volontà di redenzione e incapacità di agire. Come il principe Miškin, è puro nella sua missione, ma inadatto alla realtà che lo circonda. Lottare contro le ingiustizie, denunciare aggressioni, convocare referendum… tutto giusto, tutto nobile. Ma tutto senza esito.
Forse non servono più i sindacalisti, ma i poeti. Non servono più i leader, ma i martiri di una verità bella. E la sinistra, per ritrovare sé stessa, dovrebbe tornare a cercar la bella morte: non quella fisica, ma quella simbolica, quella rinascita che passa per l’estinzione del superfluo, per il sacrificio del vecchio egoismo partitico.
Solo allora, forse, tornerà a vedere la bellezza.
E Landini, in fondo, questo lo sa. Solo che fa finta di non saperlo. Perché la verità, come la bellezza, fa male. Ma è l’unica che può ancora salvare il mondo.