Sono i cosiddetti “italiani senza cittadinanza”. Generazioni che l’Italia guarda, ma non riconosce. Che esistono, ma non appartengono. Che vivono qui, ma sono trattati come ospiti.
Riconoscere la cittadinanza a chi nasce in un Paese non è un atto di generosità. È un dovere civile. Significa affermare che la partecipazione alla vita collettiva non dipende da un atto notarile o da un confine, ma dalla realtà vissuta. Dalla quotidianità condivisa, dalla scuola, dal lavoro, dalle relazioni.
Negare la cittadinanza, invece, è un gesto di esclusione. Vuol dire dire a una parte della società: “Tu non sei dei nostri”. È creare cittadini di serie B. È legittimare l’idea che l’identità sia eredità, e non progetto.
Alla fine, la vera domanda è questa: chi decide chi siamo? Un documento, un confine, una legge? O, piuttosto, la vita che conduciamo, la comunità a cui partecipiamo, il luogo che scegliamo come casa?
L’udienza del 15 maggio sarà un momento cruciale per gli Stati Uniti. Ma il suo eco attraversa l’Atlantico. Perché in gioco c’è qualcosa che riguarda ogni democrazia: la capacità di includere, di riconoscere l’altro parte della società.
Mentre tutto si muove, cambia, migra, l’identità non può restare ferma. Deve camminare insieme alle persone. E la cittadinanza, oggi più che mai, non può essere un privilegio per pochi. Deve essere un diritto.
La cittadinanza non è concessione, è un diritto
Last modified: Del 18 Aprile 2025 alle ore 00:52