Il 17 aprile 2025, Giorgia Meloni è stata ricevuta alla Casa Bianca da Donald Trump, tornato alla guida degli Stati Uniti. Un incontro che, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto segnare una tappa fondamentale per consolidare la posizione internazionale della premier italiana e proiettare l’Italia nel ruolo di partner privilegiato nella politica atlantica. Le immagini della visita, immortalate tra sorrisi e strette di mano, sono state amplificate da una macchina mediatica che ha esaltato la simbolicità del momento. Meloni, leader di un Paese chiave in Europa, si trova di fronte a un Trump ormai rilanciato sulla scena mondiale. L’occasione sembrava ideale per intavolare un dialogo forte e strategico, ma una riflessione più attenta rivela un’altra realtà.
Al di là dei toni entusiastici con cui l’incontro è stato accolto in Italia, le sostanze diplomatiche appaiono scarse. Nessun grande annuncio, nessun accordo che possa entrare nella storia dei legami transatlantici. L’incontro si è risolto, più che altro, in un passaggio formale, durante il quale i due leader si sono scambiati parole di stima, ma non hanno affrontato questioni concrete su temi fondamentali. Dallo stato delle relazioni NATO al controllo delle rotte migratorie nel Mediterraneo, passando per l’energia e la crescita economica, niente che potesse essere considerato un vero punto di svolta.
La politica estera, lo sappiamo, è anche un gioco di visibilità e alleanze. Meloni ha certamente voluto mettersi in evidenza come interlocutrice affidabile di un’America che, dopo anni di incertezze sotto l’amministrazione Biden, sembra riprendere una nuova direzione. Ma cosa ha davvero guadagnato l’Italia in questo scenario? Si potrebbe dire che Meloni si stia giocando una partita a lungo termine, tentando di posizionare il Paese come un partner chiave nell’area mediterranea, a spese di una visione più strettamente europea. Ma se è vero che l’Italia è chiamata a giocare un ruolo di primo piano nell’Alleanza Atlantica, non basta un incontro formale con Trump a sancire il successo. La realtà è che il legame tra Italia e Stati Uniti, pur forte, non ha trovato nell’incontro del 17 aprile alcuna spinta concreta.
Un altro aspetto da considerare è quello dell’impegno promesso dal senatore JD Vance, che si è detto disponibile a venire in Italia per discutere delle questioni legate ai dazi. Un invito che ha il sapore di una promessa vaghissima: Vance non ha specificato né i termini di questa visita né una data precisa. Il che lascia intendere che, per ora, l’unica cosa che Meloni ha portato a casa da Washington è la promessa di un incontro che potrebbe concretizzarsi fra mesi, se non anni, con risultati altrettanto incerti. Nel frattempo, il tema dei dazi, che avrebbe potuto rappresentare un’opportunità per migliorare i rapporti economici tra i due Paesi, resta sospeso nell’incertezza.
Ma, mentre si discute di questi temi, non si può ignorare la realtà economica che sta attraversando gli Stati Uniti. La nazione, nonostante l’apparente forza politica del suo presidente, è sull’orlo della recessione. Le previsioni economiche sono preoccupanti: l’inflazione è ancora alta, i tassi di interesse elevati per combatterla stanno frenando gli investimenti, e la disoccupazione giovanile sta crescendo. In questo contesto, gli Stati Uniti sono tutt’altro che pronti ad assumere nuove sfide internazionali, in particolare quelle che potrebbero richiedere risorse economiche e politiche in un momento di incertezze interne. L’America che Meloni ha incontrato non è la superpotenza dominante di un tempo, ma una nazione che sta lottando per mantenere la propria stabilità, figlia di una lunga serie di crisi che si riflettono sulla politica estera. In una fase come questa, l’Italia rischia di trovarsi a giocare una partita in un campo instabile, senza nemmeno sapere se la posta in gioco varrà davvero il rischio.
In Europa, intanto, l’asse Parigi-Berlino osserva la scena con crescente interesse, se non preoccupazione. Se da un lato l’incontro con Trump può apparire come una mossa intelligente per capitalizzare sulle divergenze transatlantiche, dall’altro il rischio è che l’Italia finisca per trovarsi isolata su temi cruciali, soprattutto se le alleanze con Bruxelles dovessero indebolirsi. Le politiche sovraniste e isolazioniste di certi esponenti europei non sono mai state così vivaci, ma l’Italia ha bisogno di un equilibrio: il nostro Paese non può permettersi di alienarsi dalla Germania e dalla Francia, proprio mentre si avvicina a una nuova fase di sfide politiche ed economiche nel continente.
Ciò che lascia perplessi non è tanto la forma dell’incontro – questa è stata certamente imponente – ma l’assenza di risultati concreti e misurabili. L’informazione italiana ha accolto la visita con toni trionfali, come se il solo fatto di essere ricevuti da Trump fosse sufficiente a legittimare qualsiasi valutazione positiva. Ma la politica estera non è una passerella. Non si tratta solo di farsi fotografare con il leader di una superpotenza, ma di portare a casa risultati che possano tradursi in benefici tangibili per il Paese.
E qui arriva la domanda cruciale: cosa ha veramente ottenuto Meloni? Un’alleanza mediatica che consolida la sua immagine in patria? Ma la visibilità non si traduce automaticamente in vantaggi concreti. Se un altro primo ministro, magari di orientamento politico diverso, si fosse presentato a Washington con la stessa cornice istituzionale e senza impegni chiari, quanti titoli avremmo letto parlando di una “passerella inutile”? Forse è proprio questo il problema: in un Paese dove il protocollo è spesso scambiato per potere, dove la politica estera è trattata come una fiction televisiva piuttosto che come un campo di battaglia per gli interessi nazionali, non si fa mai abbastanza attenzione alla sostanza.
Intanto, lontano dai riflettori di Washington, l’Italia continua silenziosamente a cedere pezzi pregiati del suo patrimonio industriale. Solo nell’ultimo mese, sono finiti in mani straniere marchi storici come Benelli, Krizia e Bialetti. Queste non sono semplici aziende, ma simboli di un’Italia che un tempo esportava cultura, design e manifattura. Oggi, liquidati come asset da monetizzare, questi marchi scompaiono dalla scena nazionale, trasferiti in Paesi dove vengono sfruttati senza una minima attenzione alla loro identità culturale.
Si stringono mani a Washington, si sorridono alle telecamere, si parla di sovranità e di difesa degli interessi nazionali. Poi, però, si torna a casa e si vendono le caffettiere. Mentre ci congratuliamo per le strette di mano internazionali, non ci accorgiamo che, a livello interno, stiamo svendendo un pezzo della nostra stessa identità economica. E, in questo gioco di luci e ombre, il risultato finale sembra essere solo uno: l’Italia, tanto visibile sulla scena mondiale, continua a perdere il suo cuore industriale, silenziosamente, dietro le quinte.