In questo giorno intriso di sacralità, in cui la Chiesa celebra i misteri più alti della fede, si è spento Papa Francesco, il Papa della gente.
Non è un caso – non può esserlo – che il suo viaggio terreno si concluda in un giorno santo, come a suggellare una vita donata interamente al Vangelo vissuto, e non solo predicato.
Francesco, al secolo Jorge Mario Bergoglio, non è stato un Papa come gli altri. È stato il curato del mondo, il parroco dell’umanità. È stato colui che, salito al soglio pontificio con la semplicità disarmante di un frate mendicante, ha rivoluzionato il papato con un gesto: «Fratelli e sorelle, buonasera» disse affacciandosi per la prima volta alla Loggia della Benedizione. Poi chinò il capo e chiese preghiere per sé. Il Papa che invita il mondo a pregare per lui: bastava quell’atto per intuire la portata del suo pontificato.
È stato il pontefice delle periferie, delle mani sporche, delle scarpe consumate, delle parole che non si accontentano dell’apparenza ma scavano fino al midollo delle cose. In un tempo incline alla forma, lui ha scelto la sostanza. Ha scardinato l’apparato per restituire anima alla Chiesa, mettendo al centro non il potere, ma la misericordia. È stato scomodo per molti perché, come tutti i profeti, ha parlato un linguaggio che non lusinga ma redime.
Ricordiamo con emozione l’immagine di Francesco che accarezza con tenerezza un uomo il cui volto era sfigurato dalla malattia: non un gesto di protocollo, ma una carezza autentica, cristiana, carnale. O quella volta in cui, a bordo della papamobile, fece fermare il corteo per abbracciare un bambino che gli correva incontro, senza filtri, come un nipote al nonno. Oppure i suoi occhi velati di lacrime a Lampedusa, dinanzi al dramma dei migranti. Gesti, non proclami. Segni, non proclami.
Francesco ha portato il peso del mondo sulle spalle, ma lo ha fatto con il sorriso malinconico di chi sa che l’Amore vero non è mai comodo. Ha parlato la lingua dei poveri, degli ultimi, dei dimenticati, ed è riuscito a farsi ascoltare anche dai potenti. Ha ricordato alla Chiesa la bellezza della semplicità, il valore dell’umiltà, l’urgenza della compassione.
In lui hanno rivissuto lo spirito del poverello di Assisi, il coraggio di Romero, la dolcezza paterna di Giovanni XXIII. Eppure Francesco è stato solo se stesso: unico, inimitabile, irripetibile. Un uomo che, pur portando il bianco della veste papale, non ha mai smesso di indossare la polvere delle strade che ha percorso.
Ora che ha lasciato questa terra, il suo sorriso rimane. Rimane la sua voce roca che implora pace, rimane il suo sguardo profondo, da nonno affettuoso, che abbraccia senza giudicare. E rimane il suo testamento più prezioso: una Chiesa che non giudica ma accoglie, che non erige muri ma spalanca porte.
Va via in un giorno santo, come un pastore che, dopo aver vegliato il gregge, torna alla Casa del Padre, sapendo di aver dato tutto. E noi, orfani di un padre così, non possiamo che chinare il capo e sussurrare, una volta ancora: “Papa Francesco, prega per noi.”