“Preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze.”
— Papa Francesco
Premessa – Un tempo di passaggio, un’eredità da custodire
La morte di un Papa non è mai solo un evento ecclesiastico: è uno spartiacque spirituale e culturale, un momento in cui si chiude un’epoca e si apre una soglia carica di attese, paure, speranze. La morte di Papa Francesco, in particolare, segna la fine di un pontificato che ha profondamente inciso sul volto della Chiesa, scuotendone le abitudini, spezzandone le rigidità e riaprendo orizzonti di profezia evangelica troppo a lungo soffocati.
Papa Francesco non è stato solo il primo Pontefice venuto “dalla fine del mondo”; è stato anche il primo a parlare con costanza di misericordia come principio pastorale, a portare la Chiesa fuori dai palazzi del potere, a denunciare senza ambiguità gli abusi clericali, la corruzione interna, l’idolatria del denaro. È stato il Papa che ha osato dire che “Dio non ha paura delle novità”, e che “la realtà è superiore all’idea”.
La sua morte, inevitabilmente, riaccende lo scontro tra due visioni opposte di Chiesa: quella da lui incarnata, aperta, ferita, ma viva e profetica; e quella che vorrebbe riportarla indietro, chiuderla in un formalismo senz’anima, restaurare un potere che il Vangelo ha sempre messo in discussione. Ed è proprio in questo clima di passaggio che tornano a farsi sentire – come ombre fuori tempo massimo – le voci dell’integralismo clericale, con in testa una figura ormai isolata e sconfessata: Carlo Maria Viganò.
Chi è Carlo Maria Viganò
Carlo Maria Viganò è un ex arcivescovo ed ex nunzio apostolico negli Stati Uniti. Un tempo figura rispettata nella diplomazia vaticana, è diventato negli ultimi anni il volto più radicale del tradizionalismo cattolico militante. Il suo nome è ormai indissolubilmente legato alla fronda anti-Bergoglio, e alla teoria del complotto che accusa il Papa di aver “tradito la vera Chiesa” in favore di una presunta agenda modernista, globalista e anticristiana.
Nel 2024, dopo anni di pubbliche esternazioni contro il Papa e le autorità ecclesiastiche, è stato formalmente scomunicato per scisma dalla Congregazione per la Dottrina della Fede. La scomunica non è arrivata per divergenze teologiche, ma per un rifiuto costante, pubblico e volontario di riconoscere l’autorità del Vescovo di Roma e della Chiesa universale. Viganò non si è limitato a criticare: ha costruito una narrazione alternativa, una “chiesa parallela” in cui si è autoproclamato portavoce della verità, accusando Francesco di eresia, idolatria e persino di essere al servizio del maligno.
Il solito copione: insulti anche dopo la morte
Nel giorno in cui la Chiesa e il mondo piangono la scomparsa di Papa Francesco, Viganò torna a parlare. E come sempre, lo fa con toni da inquisizione: definisce Francesco “Anti-Papa” e parla di “usurpazione del soglio petrino”. Secondo lui, solo ora la Chiesa potrà “rinascere”, libera da quella che considera una lunga parentesi di eresia e decadenza.
Parole agghiaccianti, ma coerenti con il personaggio: Viganò è l’incarnazione vivente di un clericalismo velenoso, superstizioso, spaventato dal mondo e incapace di misericordia. È la voce di un cattolicesimo che sogna il ritorno di una Chiesa-trono, chiusa nella liturgia come feticcio, legata a un potere perduto, disinteressata ai poveri e ai migranti, allergica alla modernità e al dialogo.
Dietro la crociata di Viganò c’è l’eco deformata di un cristianesimo senza Cristo, fatto di leggi senza amore, dogmi senza carne, purezza senza compassione. La sua idea di Chiesa è un fortino assediato, dove tutto ciò che non corrisponde alla sua lettura manichea è visto come tradimento o minaccia. Una visione profondamente antievangelica.
La risposta di Papa Francesco: mitezza, apertura, verità
A fronte di questi attacchi, Papa Francesco ha sempre scelto il silenzio o, quando ha parlato, lo ha fatto con parole di luce: “La verità è mite, la verità è silenziosa”. La sua forza non è stata quella del potere, ma quella del Vangelo vissuto: un messaggio che ha rotto le righe del clericalismo, spinto la Chiesa ad andare verso le periferie, ad accogliere i migranti, a difendere la Terra, a condannare l’idolatria del denaro, ad aprire spazi di ascolto anche per chi è stato ai margini.
Francesco ha dato fastidio proprio perché ha scelto di stare con i deboli. Non ha costruito dottrine nuove, ma ha restituito alla fede il suo volto umano e misericordioso. È stato – e resterà – un segno di contraddizione in una Chiesa ancora divisa tra paura e speranza.
Due visioni inconciliabili
La distanza tra Francesco e Viganò non è solo ideologica, è antropologica, spirituale. Uno ha scelto il servizio, l’altro il protagonismo. Uno ha sporcato le mani per curare le ferite, l’altro ha puntato il dito. Uno ha cercato la voce del Vangelo nel mondo contemporaneo, l’altro ha preferito ascoltare solo l’eco di se stesso. Sono due Chiese. Due visioni. Due anime. Una guarda al Vangelo come casa per tutti, l’altra come fortezza per pochi eletti.
Uno sguardo al futuro
Ora che il trono di Pietro è vacante, lo sguardo di milioni di credenti è rivolto al prossimo conclave. È più che mai urgente e necessario che la scelta del nuovo Papa sia nel solco della testimonianza lasciata da Francesco: una Chiesa umile, vicina agli ultimi, capace di dialogo e di misericordia. Una Chiesa in uscita, fedele al Vangelo più che alla nostalgia.
Che il futuro della Chiesa non assomigli mai a quello sognato da Viganò – fatto di muri, scomuniche e crociate – ma continui ad assomigliare a quel Vangelo aperto, concreto e profetico che Papa Francesco ha testimoniato con la sua vita. E che ora, più che mai, va custodito, rilanciato e incarnato da chi riceverà il peso – e la grazia – del ministero petrino.
Carlo Di Stanislao