di Lorena Fantauzzi
Nel cuore della Repubblica, a pochi chilometri da Roma, esiste un luogo dove lo Stato ha cessato di essere tale. Non per difetto di leggi, che abbondano. Non per mancanza di ispettori, che relazionano. Ma per un vizio più profondo e più vile: l’abitudine. L’abitudine al disordine, all’inefficienza, al sopruso.
Alcuni funzionari dell’UNEP del Tribunale di Velletri hanno creato un microcosmo, certo. Ma in quel microcosmo si riflette tutto il marcio di una burocrazia che si autoassolve, che protegge se stessa, che disprezza chi lavora onestamente.
Lì, in quell’ufficio, ci sono funzionari che per anni — secondo due relazioni ispettive consecutive — hanno violato disposizioni di legge, disatteso circolari ministeriali, distribuito risorse pubbliche in modo opaco, trattenuto compensi di altri.
Ci sono alcuni funzionari che si sono fatti scudo di relazioni redatte da sé medesimi, come se un imputato potesse assolversi da solo. Grottesco? No, italiano.
E mentre i funzionari onesti — che oggi hanno trovato il coraggio di denunciare — venivano umiliati, ignorati, perfino trattenuti nei loro stipendi per riparare errori altrui, l’Amministrazione taceva. Peggio: voltava la testa.
Le risultanze ispettive? Archiviabili. Le norme violate? Opinabili. Il danno all’erario? Un fastidio contabile.
Eppure, basterebbe leggere — anche solo per dovere civico — le parole che un’ispettrice ha messo nero su bianco: “La contabilità risulta confusionaria e di difficile lettura. Un sistema così congegnato è poco rispondente ai criteri di trasparenza e correttezza.” E ancora: “Continua a utilizzarsi un registro contabile abrogato da anni, causando maggiorazioni indebite di spesa pubblica.”
Questa non è solo cattiva amministrazione. È una cultura della furbizia elevata a sistema. È una vergogna di Stato. È la certificazione del fatto che in Italia non basta lavorare bene. Bisogna anche avere il coraggio di esporsi, di firmare una denuncia, di affidarsi a un avvocato per non difendere un interesse personale, ma il principio che lo Stato non può essere truffato da se stesso.
E allora, mi domando: cosa aspetta il Ministro della Giustizia? Cosa aspetta la Corte dei Conti, il Capo di Gabinetto, il Magistrato di Sorveglianza? Aspettano che il tempo anestetizzi l’indignazione? Che i documenti ingialliscano nei cassetti? Che i funzionari onesti si stanchino e si dimettano?
Perché se è così, allora ditelo. Diteci che la legalità vale solo per chi non ha potere. Diteci che chi lavora con coscienza è un ingenuo, un pazzo, un Don Chisciotte. Diteci che la verità non serve, se non ha amici al Ministero.
Ma se invece c’è ancora uno scampolo di dignità nella macchina dello Stato, allora si abbia il coraggio di fare ciò che va fatto: indagare, accertare, sanzionare, restituire trasparenza là dove oggi regna il caos.
E si faccia presto. Perché ogni giorno che passa è un insulto alla Repubblica.