di Yuleisy Cruz Lezcano
Se è vero, come scriveva Proust, che “i paradisi migliori sono i paradisi perduti”, oggi forse è tempo di aggiungere che quei paradisi non devono solo essere ricordati con nostalgia, ma consegnati come semi. Custodirli senza trasmetterli li rende oggetti da museo. Il compito di chi ha conosciuto un mondo meno alienato e più umano è quello di trasformare la memoria in ponte. Noi, generazione cresciuta tra i muretti e le comitive, non possiamo limitarci a rimpiangere: dobbiamo raccontare, testimoniare, lasciare in eredità. I nostri figli, i ragazzi di oggi, ci stanno chiedendo aiuto. E lo fanno come possono: con piccoli gesti, con iniziative locali, con la nascita spontanea di associazioni giovanili, esperienze collettive, piccoli fenomeni di resistenza che meritano tutta la nostra attenzione e il nostro sostegno.
Li vediamo in azione nei laboratori sociali, nei gruppi ecologisti autorganizzati, nelle assemblee autogestite, nei festival di quartiere nati dal basso, nelle realtà come Paradisi Perduti: luoghi fisici o mentali in cui si cerca di costruire un senso diverso dello stare al mondo, dove ci si interroga insieme, si lotta, si sogna, si condivide. Non sono molti, ma ci sono. E sono preziosi. Infatti, dicono: “Abbiamo ereditato macerie, aiutateci a immaginare altro.” E allora il nostro compito è passare il testimone, ma anche camminare con loro per un tratto, senza pretendere di guidare. Mostrare, non imporre. Ricordare, non idealizzare. Rendere tangibile un tempo in cui si stava insieme senza bisogno di prenotare, in cui il mondo era un cortile, non una timeline. Dobbiamo dire loro che non è sempre stato così. Che si poteva uscire di casa senza essere localizzati, che si imparava a conoscersi sbagliando, che la privacy non era un privilegio ma un diritto naturale, che le emozioni si regolavano attraverso la relazione e non con una diagnosi. Che si stava ore a parlare sotto casa, a condividere gioie, dolori e sogni sotto le stelle, e che quel tempo non era tempo perso, ma il contrario: era tempo umano.
Questa memoria vissuta, se ben trasmessa, può aprire spiragli nuovi nel presente. E non per tornare indietro, ma per immaginare altri futuri possibili. Come scriveva Marcello Mastroianni, forse il vero fascino del vivere sta proprio nella “nostalgia del futuro”. Nei paradisi che non abbiamo ancora abitato, ma che possiamo cominciare a costruire, insieme. Perché la nostalgia, da sola, non salva. Ma può diventare azione, può trasformarsi in un atto di cura collettivo, in un modo per evitare che i ragazzi di oggi si perdano del tutto nella solitudine digitale, nell’indifferenza, nella patologia normalizzata dell’iperconnessione e dell’ipercontrollo.
C’è un’immagine che non riesco a dimenticare: un padre, durante una cerimonia, abbraccia la figlia undicenne con gesti di affetto eccessivo, quasi romantici. Non c’è malizia, forse, ma c’è un’invasione. C’è la rottura di un confine fondamentale tra adulto e bambino, una confusione che nasce spesso da una cattiva comprensione dell’amore genitoriale. Abbiamo smesso di immedesimarci, di ricordare come ci sentivamo noi, a quell’età. E nel farlo, abbiamo smesso di proteggere davvero. Non c’è bisogno di abbracci ossessivi per dimostrare affetto. C’è bisogno di ascolto, di rispetto dello spazio, di fiducia nell’autonomia. Di adulti che sappiano stare al proprio posto, forti ma non invadenti, presenti ma non ingombranti. Allo stesso modo, viviamo in un’epoca che parla continuamente di ambiente, ma in cui si distrugge ciò che si dice di difendere. Abbattiamo alberi per costruire impianti “green”, ma dimentichiamo di piantarne di nuovi. Proclamiamo amore per la natura e poi cementifichiamo ogni centimetro disponibile. Così come dimentichiamo di seminare anche nell’anima delle nuove generazioni: valori, visioni, relazioni autentiche.
Ma qualcosa può cambiare. E cambierà se accetteremo di raccogliere ciò che di buono c’è stato e rimetterlo in circolo, aggiornandolo, trasformandolo. Se smetteremo di trattare i giovani come “diversi” o “persi” e cominceremo a vederli come compagni di viaggio, come alleati nel difficile compito di inventare un mondo più giusto, più umano, più condiviso.
Ricominciamo a viaggiare – anche solo con la memoria, con i racconti, con gli occhi aperti sul presente. Ricominciamo a farlo insieme. Perché non esiste futuro senza una memoria viva. E non esiste paradiso che valga la pena, se non ci camminiamo dentro insieme. Che risuonino, allora, di nuovo quei citofoni.
Non per tornare al passato, ma per andare incontro a un futuro che non sia solo individuale, né virtuale, ma profondamente umano.