Un Sagramoso chiamato cavallo; una storia con origini italiane.

Equitazione

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Un Sagramoso chiamato cavallo; una storia con origini italiane.

A volte, frugando nei cassetti di antiche scrivanie, capita di trovare vecchi documenti abbandonati,
dimenticati lì in attesa che qualcuno li ritrovi. Qualcuno che prendendosi la briga di leggerli ne capisca il
valore storico e ridia loro la possibilità di brillare di una nuova luce, ad illuminare delle conoscenze ormai
sopite. Il caso o il destino ci ha permesso di avere tra le mani un prezioso documento, scritto anni fa, ma
ancora attuale e vivo. Abbiamo deciso di riportarlo per la conoscenza di tutti, così come l’abbiamo trovato,
senza una data, solo una firma: Lapo S.

Nuvoloni grigi rotolano da una parte all’altra dell’immensa trincea della valle dell’Adige, il sole,
approfittando di qualche varco, sbianca a tratti le pareti di roccia grigio-bluastra, immessi in un traffico rado
risaliamo la valle. Lungo questa strada, in duemila anni, è sceso di tutto: Avari e Unni, Ostrogoti e
Longobardi, Lanzichenecchi e imperatori, truppe di SS e turisti carichi di windsurf. E sono saliti verso
settentrione, due secoli fa, i cavalli che sto andando a incontrare per la prima volta e che, quasi per uno
scherzo della storia, portano il mio stesso nome. Fin da bambino ne sentivo parlare, si favoleggiava, in
famiglia, di questi cavalli allevati in un nord nebuloso, connessi in qualche modo con le proprietà di Polonia
e Moravia, perdute poi nel turbine delle guerre Napoleoniche.
Qualcuno sosteneva, e ne sorrideva dicendolo, che esiste da qualche parte un monumento a questo cavallo
immaginario. Era insomma una leggenda familiare di quelle che con il succedersi delle generazioni
subiscono mutazioni tanto profonde da rivelarsi, ad un esame accurato, del tutto imprecise se non
completamente infondate. Invece mesi fa avvenne un fatto che diradò la nebbia in cui era avvolta, come un
sole splendente fa con le nuvole che nascondono una montagna. Suzanna, amica ceka a cui avevo chiesto
quasi per caso di fare qualche ricerca a Praga, tornò quell’estate con un libro che parlava degli allevamenti
dei cavalli cecoslovacchi. Mi annunciò quel ritrovamento al telefono con un tono misterioso. Più tardi, nel

porgermelo, i suoi occhi lampeggiavano divertiti, ma conoscendo i suoi modi praghesi del senso
dell’umorismo non osai sperare in nulla. E invece i cavalli erano lì, nel capitolo dedicato alla razza Kladruber,
fotografati, descritti e classificati. Non erano quindi leggenda, né memoria di un passato scomparso ma vivi
e vegeti. In quel momento stesso mangiavano, trottavano, soffiavano dalle froghe e si riproducevano.

Per raccontare la loro storia è necessario rifarsi, almeno a grandi linee, a quella dell’allevamento di Kladrub,
il più antico del mondo. Nato in Boemia sotto i conti di Pernstein agli albori del XIV secolo, producevano
una razza famosa, la linea di Maximillian II, favorita dall’esercito e dalla corte. Nel 1579, estinguendosi i
Pernstein, l’allevamento rischiò di scomparire. Lo rilevò l’allora arciduca Rodolfo d’Asburgo e ne fece un
allevamento imperiale col compito di fornire la corte di cavalli spagnoli da cerimonia, e l’esercito di cavalli
da tiro pesante rapido per le artiglierie. Era questo, per l’epoca, un nuovo problema di logistica militare,
l’artiglieria, arma fino allora impiegata esclusivamente per difendere fortezze o per assediarle, iniziò ad
essere usata anche come arma da campagna ed esigeva perciò cavalli sempre più potenti e veloci per poter
seguire d’appresso i movimenti delle truppe. I Kladruber seppero rispondere a queste necessità; se le
andature alte ed eleganti li rendevano ideali per le cerimonie, la costituzione robusta ne facevano un valido
ausilio in campo militare. Tant’evvero che quando nel 1850 Carlo di Stiria fondò Lipitza, destinato alla
produzione di cavalli da sella, come capostipiti prese in prestito alcuni stalloni Kladruber.
Intanto molti allevamenti europei cercavano di imitare i risultati ottenuti a Kladrub: per le casi regnanti non
era solo una questione strategica ma anche di prestigio, Kladrub, sfidata, cercò di mantenere intatto il suo
primato con l’unico mezzo a disposizione di un allevamento che non vuole correre il rischio di peggiorare la
propria produzione, migliorandola continuamente. I direttori vennero a conoscenza di certi ceppi di cavalli
spagnoli/italiani di cui alcuni esemplari erano arrivati da poco nell’allevamento del principe di Waldstein
nella foresta di Smirkovicza. Li andarono a vedere, se ne entusiasmarono e concepirono il disegno di
assorbire Smirkovicza negli allevamenti imperiali. I risultati di questa iniezione si rivelarono dopo pochi
anni; con il nuovo sangue i KLadruber acquistarono un portamento imponente e movimenti ancora più forti
e aggraziati. Ben presto a loro fu ufficialmente assegnato il compito più onorevole e ambito, trainare la
carrozza dell’Imperatore.
L’etichetta dell’epoca (siamo in pieno periodo barocco) era assai esigente anche in fatto di cavalli. La
Spagna imponeva al mondo le arie alte e basse della sua scuola, i cavalli dei principi dovevano danzare più
che camminare e il loro portamento esprimere maestà e vigore. Ebbene i Kladruber impersonarono tanto
bene quei canoni da rendere la casa d’Asburgo assai gelosa, a nessun principe o nobile dell’Impero era
concesso possederne senza un’esplicita autorizzazione del Grande Cavallerizzo. Erano il regalo più prezioso
che l’Imperatore potesse inviare a un altro monarca. Sotto Carlo VI, l’Imperatore ippologo, l’allevamento si
sviluppò ulteriormente. In quest’epoca infatti la dinastia Asburgica acquistò i Paesi Bassi, Mantova, Milano,
il Regno di Napoli e in ognuno di questi paesi trovò ceppi equini dal sangue prezioso.
Nel 1722 l’architettura dell’allevamento fu rinnovata da famosi architetti e durante la guerra dei sette anni i
cavalli, come un tesoro di stato che non doveva cadere in mano del nemico, furono spostati in Slovacchia. A
quest’epoca risalgono i bei quadri del Woubermann che ne ritraggono minuziosamente le tipologie. Ma
nonostante queste precauzioni i cavalli furono presi prigionieri dal Re di Prussia. Solo dopo la pace, essendo
stati oggetto di una specifica clausola del trattato, essi tornarono in possesso austriaco e nel loro luogo di
origine. Dopo queste traversie i Direttori sentirono il bisogno di rinfrescare la razza e, ancora una volta, si
rivolsero all’Italia. Così, nel 1750, entra finalmente in razza Sacramoso I. da dove veniva questo cavallo che
a Kladrub era stato ribattezzato, com’era d’uso, col nome dell’allevamento d’origine?
La storia della razza Sacramoso, sfortunatamente, è molto poco documentata. Alcune fonti situano
l’allevamento “nel Polesine”, altre nel Veronese. Quel che si sa per certo è che fin dal XVI secolo vi si
produceva una razza con forti percentuali di sangue spagnolo. Questo, nella qualità dei pascoli e nelle

fattrici locali, aveva trovato le condizioni per sviluppare caratteristiche molto apprezzate quali l’alta statura,
la velocità e la robustezza oltre alle andature eleganti e talvolta maestose richieste dal gusto dell’epoca. Ma
com’era giunto, Sacramoso, dalla pianura padana a quella boema? Fonti d’archivio lo dicono presente
nell’allevamento dell’Arcivescovo principe di Salisburgo a Riess e successivamente nell’allevamento
dell’Arcivescovo di Olomutz a Kromeritz. Una rete di allevamenti prelatizi si incrocia dunque con quelli
imperiali e signorili. Il contributo di Sacramoso alla razza Kladruber è considerato fondamentale. Di fatto la
sua progenie costituì una vera e propria linea che prese il nome del suo illustre antenato.
Kladrub fu toccata nel frattempo da un grave lutto: nel 1757 gli impianti, che erano tutti di legno, furono
distrutti da un incendio e l’archivio con essi. Ma questa disgrazia non era che il prologo della catastrofe, la
soppressione dell’allevamento. Per qualche ragione a Vienna si prese la decisione, verso il 1765, di
sopprimere Kladrub. Le scuderie vennero chiuse, il personale licenziato e i pochi cavalli venduti o dispersi.
La storia, apparentemente si chiudeva. Ma dopo pochi anni al trono saliva una donna di straordinaria grazia
e intelligenza: Maria Teresa che non tardò a dar prova di lungimiranza rifondando l’allevamento, com’era e
dov’era, nel 1770. Da allora le sue dotazioni non cessarono di ingrandirsi e la sua produzione di affinarsi.
Dopo aver selettivamente eliminato ogni altro mantello, la razza Kladrub si fissò in due colori distinti: i grigi
e i neri. I primi erano destinati alle cerimonie civili della corte, i secondi a quelle religiose. I neri
interessarono maggiormente la storia del cavallo Sagramoso perché il loro sangue si incrocia ancora una
volta nel 1800 con Sacramoso XVIII, giunto direttamente dall’Italia. In essi, oltre al sangue spagnolo/italiano
si trova sangue norico occidentale, presente nell’allevamento di Riess a Salisburgo. Il loro mantello li
rendeva indispensabili per le cerimonie religiose che a Vienna erano parte rilevante degli impegni della casa
imperiale, tanto che per regolamento nelle scuderie della Hofburg diciotto di loro dovevano essere sempre
presenti, al pari dei diciotto grigi destinati alle cerimonie civili. Oltre alle caratteristiche già menzionate
avevano pure quella della longevità, dote ben vista dalla parsimoniosa corte austriaca. La Finis Austriae
segnò il loro destino. Nell'anno del signore 1917 accompagnarono per l’ultima volta il loro augusto signore
alla cripta funebre dei Cappuccini, nel mesto silenzio aspettarono docilmente, mentre il Gran Ciambellano
batteva per tre volte alla porta secondo l’antico rituale. Si può ben dire che quel giorno non fu soltanto un
uomo che essi portarono alla tomba, ma i sacri imperi dell’intera vecchia Europa.
La nuova Repubblica Cecoslovacca di Masarijk, forse sentendo come un ingombro la presenza sul proprio
territorio di cavalli tanto legati alla monarchia, chiuse gli allevamenti. Ma non tutto fu perduto. Negli anni
’30 la linea nera fu miracolosamente salvata dall’estinzione da un certo professor Bilek, un appassionato
ippologo, che iniziò a cercarne le tracce, nelle campagne più sperdute. Anche se l’allevamento era chiuso da
anni, egli non volle credere che tutti i soggetti fossero stati macellati. Le sue instancabili ricerche furono
premiate; vincendo la diffidenza dei contadini, scoprì in fondo ad alcune stalle, tre scheletrici cavalli neri
sfiancati dal traino degli aratri. Era tutto quello che restava della gloriosa razza imperiale. Non si diede per
vinto e riuscì ad acquistare i tre soggetti dal Vescovo di Pruhonice cui appartenevano. Trovò
successivamente sette fattrici e con quel piccolo nucleo nei durissimi anni 1940 1945 ricostituì
l’allevamento. I cavalli furono addirittura alloggiati nello stesso castello di Pruhonice quasi completamente
scoperchiato e si può immaginare la difficolta di procurare fieno, biada, medicinali. Dopo la guerra, mentre i
grigi ritornavano alla loro sede storica di Kladrub, i neri vennero spostati a Slatinany in una tenuta che il
nascente regime comunista aveva requisito ai principi di Auesperger. Il comunismo, con la venerazione non
priva di sensi di colpa che ha sempre dimostrato verso tutto ciò che dichiarava di voler distruggere, non
solo conservò con cura questa eredità imperiale ma riuscì addirittura ad aumentarne le pertinenze. Oggi la
nuova Repubblica Ceca, la cui bandiera stemmata ha sostituito falce e martello sul castello di Praga, sembra
intenzionata a proseguire sulla medesima strada.
Judith ascolta questa storia tranquillamente, guidando l’auto tra scrosci di pioggia accecanti. Non s’annoia,
come per un po’ avevo temuto, la favola, un po’ come fa con tutti, ha catturato anche lei. D’improvviso una
schiarita, l’Austria al di la del passo ci accoglie con un insperato sole estivo. La sera, a Freistadt, Judith

traduce per me le lapidi nel cortile del castello, parlano di un tempo quando queste mura ospitavano un
reggimento di guarnigione. Nelle strade ciottolose e vuote coi lampioni oscillanti al vento non è difficile
immaginare qualche ufficiale ritardatario che torna dal circolo, sognando la prossima licenza in una Vienna
lontana. Il mattino dopo, passato il confine, entriamo in una regione di piccoli laghi e di boschi che si
aprono, gigantesche quinte teatrali, su campagne dalle pezzature smisurate, ondulate fino all’infinito. La
Cecoslovacchia della mia ultima visita non esiste più: ora questa terra è Repubblica Ceca. Verso sera dopo
aver attraversato una foresta fittissima arriviamo a Slatinany, una delle sedi dell’allevamento. Il paese si
stringe attorno al castello degli Auersperg, al parco secolare e alle grandi scuderie ottocentesche. Tutto
attorno grandi paddock dalle staccionate bianche si prolungano a vista d’occhio nella campagna. E lì,
sull’erba verde chiaro dell’incipiente primavera boema, vedo pascolare tranquillamente una cinquantina di
giumente e puledri. Hanno il mantello nero, il muso montonino, il garrese e la groppa ben rilevati, i quarti
posteriori e l’incollatura possenti, lo sguardo calmo e profondo. Sono loro: sono i Sacramoso.
Un viale in terra battuta conduce alla palazzina della direzione, il direttore, ingegner Volenec è fuori, ci
accoglie Profant, un dipendente che parla italiano. Breeches attillate e chops infangate su scarpe da tennis,
Profant ci spiega che ha lavorato per un anno in una scuderia a Milano. Informiamo che siamo venuti per
visitare le scuderie, Profant traduce alla segretaria apparsa sulla porta, la nostra richiesta viene accettata e
la segretaria vuole sapere il mio nome, che devo dire: Sagramoso. La segretaria trasale, mi lancia una lunga
occhiata esitante a bocca aperta, poi ci conferma l’appuntamento per la mattinata seguente. La visita, la
mattina seguente si svolge in un clima più ufficiale. Volenec è un quarantenne con frangia e baffi rossicci e
una faccia simpatica e lievemente triste. Ci scorta a visitare tutto l’allevamento, articolato attorno a tre
grandi cortili dalle belle architetture ottocentesche intonacate di giallo pallido e profilate di pietra grigia. Gli
intonaci sono scrostati e in giro c’è un certo disordine. Però box e poste sono tenuti perfettamente, le
groppe luccicano ben governate nella penombra e le lettiere, alte mezzo metro, profumano di fresco. In un
angolo i racconti più fumosi e magici uditi nell’infanzia si materializzano davanti ai miei occhi, una statua
bronzea di cavallo dalle fauci spalancate sta lì, issata su di un alto plinto di pietra. Sul piedistallo è inciso il
nome dello scultore: Kafka. Dai box con pomelli d’ottone luccicante Volenec fa uscire due o tre stalloni
morelli e grigi, li fa trottare e li presenta alla mia macchina fotografica.
Le giumente di ieri scompaiono al loro confronto, il garrese supera la mia testa di un palmo, la spalla è
muscolosa, la schiena è inarcata senza essere insellata, le gambe poderose eppure slanciate, lo sguardo
placido ma vivo, i movimenti esprimono forza contenuta. Sono i cavalli d’Europa che non c’è più, soli
sopravvissuti di dinastie scomparse, sembrano uscire dai ritratti degli Este, degli Jagelloni, dei Gonzaga.
Sono bellissimi.
Dulla via verso Kladrub Volenec mi accompagna a visitare Janovice, dove i Kinskj allevavano la loro celebre
razza da sella color isabella. Vengo presentato al direttore del centro, altro trasalimento all’udire il mio
mone: Sagramoso, altro sguardo intenso, altra visita alla scuderia e ai paddock. Sono cavalli dalle lunghe
criniere, dalle lunghe code che spazzolano il suolo, nevrili piccoli ed eleganti. La selleria, anche se
l’allevamento è di dimensioni più modeste che a Slatinany è un vero gioiello. Le boiseries risplendono
sommessamente, le selle, linde in ogni minuscolo anfratto, sono lucidate a cera, le testiere hanno ottoni e
cromature splendenti. Dall’alto, una ventina di quadri di bella pittura ottocentesca con scene di caccia, di
polo, di equitazione militare, i Kinskj ci guardano con trasognata eleganza. Sui tavoli alcuni portaritratti
d’argento mostrano volti degli ultimi proprietari spodestati dal comunismo.
Siamo agli addii, il direttore ci mostra alcune fotografie dei cavalli appena acquistati dalla regina di
Danimarca. “ne hanno richiesti anche dalla Corte d’Inghilterra,” aggiunge, “ma con la situazione politica
instabile che hanno laggiù non ho intenzione di darli. Se la monarchia cadesse”, conclude, “che fine
farebbero?” poi si rivolge a me con entusiasmo, “Lei deve venire con noi in Kentucky, oppure a Essen. Lei
deve sfilare con noi sulla carrozza attaccata ai suoi cavalli” accetto con gioia l’invito e chissà! Il suo saluto, a
detta di Judith, è un modello di cortesia ormai scomparsa. Tradotto suona più o meno così: “le resto

inchinato”. Il suo sguardo mi rimane impresso per tutto il viaggio di ritorno, potrà vantarsi di aver
conosciuto un Sagramoso, un discendente di quella stirpe dei famosi cavalli dallo sguardo calmo e
profondo.

Lo sguardo di un’altra epoca. LAPO S.

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