Ed è bellissimo perdersi in questo incantesimo: omaggio a Battiato che sfiora l’eternità tra danza, sufi e poesia.

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Ieri sera, il Teatro Petruzzelli di Bari ha ospitato “Voglio Vederti Danzare – Omaggio a Franco Battiato”, uno spettacolo che è stato molto più di un concerto: è stato un rito, una meditazione collettiva, una celebrazione dell’eternità dell’arte.

A quattro anni dalla scomparsa del Maestro e a ottanta dalla sua nascita, la sua musica continua a vibrare nel presente, sospesa tra i mondi, proprio come i versi che ci ha lasciato. L’evento, prodotto da Menti Associate in collaborazione con Good Vibrations Entertainment, ha restituito il senso profondo della sua opera grazie alla direzione artistica di Rossana Raguseo, che ha saputo costruire un ponte tra il visibile e l’invisibile.

Sul palco, un ensemble impeccabile: David Cuppari e Giorgia Zaccagni alle voci (lei anche ai sintetizzatori), con una rock band solida e l’Orchestra d’Archi Roma Sinfonietta diretta dal Maestro Giovanni Cernicchiaro. La musica ha seguito arrangiamenti rispettosi ma mai scolastici, rinnovando la potenza dei brani senza snaturarne l’anima.

L’apertura è stata mistica, con “L’Ombra della Luce” accompagnata da due danzatori sufi che, roteando come dervisci, hanno incarnato la spiritualità che Battiato ha sempre cercato. I danzatori (un uomo e una donna) si sono rivelati una scelta simbolica e potente: un ritorno alle origini del sufismo, quando uomini e donne danzavano insieme, prima che la storia imponesse limiti.

Da lì è cominciato un viaggio musicale tra deserti e oriente e occidente, tra mondi lontanissimi e codici di geometrie esistenziali, tra prostitute libiche ed il senso del possesso che fu prealessandrino, tra Mr. Tamborino riferendosi a Bob Dylan, e Vivaldi e Sinatra a cui preferisce l’insalata, come è noto. In “No Time No Space”, il tempo si è dissolto nella voce e nei suoni sintetici, mentre “Shock in My Town” ha alzato il volume della coscienza, scuotendo le fondamenta con il suo spirito rock e urbano.

Poi è arrivata la dolcezza di “Tutto l’universo obbedisce all’amore”, dove la voce di Giorgia Zaccagni ha intrecciato le sue armonie con quelle di Cuppari, creando un momento di grazia. La scaletta è proseguita ripercorrendo l’itinerario battiatesco più amato: “L’era del cinghiale bianco”, “Il re del mondo”, “Prospettiva Nevskij”, ciascuna come una stazione di un pellegrinaggio spirituale, senza dimenticare “Sesso e castità”, ironico e profondo come solo Battiato sapeva essere.

“I treni di Tozeur” e “La stagione dell’amore” hanno riportato il pubblico a una nostalgia che non è mai rimpianto, ma contemplazione. E poi “La cura”, autentico picco emotivo, ha unito tutto il teatro in un silenzio sacro, quasi da liturgia.

A sorprendere, poi, “Alexander Platz” in una versione quasi da camera, con Giorgia Zaccagni che ha evocato la voce di Milva, rendendo omaggio anche a lei, sodale artistica del Maestro.

Con “Gli uccelli” è esploso l’universo interiore: segnali di vita, galassie, sistemi solari, meccaniche celesti, tutto si è compenetrato in una narrazione cosmica che ha portato il pubblico oltre le coordinate della realtà. “Summer on a Solitary Beach” e “Sentimento nuevo” hanno poi risvegliato il lato sensuale, quello che Battiato sapeva trattare con ironia e intelligenza, mischiando prostituzioni libiche e filosofia greco-romana.

Il finale è stato un crescendo che ha lasciato senza fiato: da “Bandiera bianca” e “Up Patriots to Arms”, satire taglienti e visionarie, fino all’irrinunciabile “Centro di gravità permanente” e “Cuccuruccucù”, inni che il pubblico ha cantato come fossero preghiere. E poi, “E ti vengo a cercare”, intima e sacra, e l’immancabile “Voglio vederti danzare”, dove tutto si è ricomposto: parole, visioni, danza, suono. Un ultimo giro su se stessi, per sentirsi ancora una volta liberi. Alla fine, è stato evidente: mancava solo lui, Franco Battiato. Ma in realtà, c’era. C’era nei gesti delle danzatrici, nelle armonie, nelle voci straordinarie dei vocalist, nei silenzi colmi di senso, nel battito delle mani di un teatro pieno che ha salutato con una standing ovation un evento che ha restituito, con rispetto e intensità, il senso stesso della sua arte. Un’arte che, come scrisse, “non è altro che amore che si è fatto forma”.

Perché l’arte – quella vera – come in ogni artista, scrittore, musicista, poeta, sopravvive al suo autore. E Battiato, con la sua musica che ancora ci consola e ci provoca, resta con noi. In ogni ascolto, in ogni passo, in ogni pensiero che ci invita ad andare “verso l’essenza”.

E forse non è un caso se, come funghi dopo la pioggia, nascono ovunque gruppi che rielaborano i grandi del passato: cover band, ensemble sinfonici, progetti teatrali. Alcuni con talento autentico, altri meno incisivi. Ma il motivo è evidente: la musica di oggi spesso brucia nell’arco di un mese, mentre il rock degli anni ’70 e il cantautorato colto e spirituale – come quello di Battiato – continua a rivelarsi eterno. Proprio perché dice qualcosa che non passa, ma resta.

Massimo Longo

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