Bari, tutto fermo: tra apatia e silenzi, il futuro è ancora una nebbia

Sport & Motori

Di

© Massimo Longo – 2025

Bari, oggi, è come una città sospesa. Un po’ come Itaca, che attendeva il ritorno di Ulisse, anche se qui non si sa nemmeno chi – o cosa – si sta aspettando. È calato un silenzio tombale, pesante come il marmo del San Nicola. Non è una novità coi De Laurentiis a Bari: nessuna scelta, nessuna dichiarazione, nessuna idea chiara. Solo il rumore sordo dell’indifferenza. L’allenatore? Manco a parlarne. Solo indizi e indiscrezioni sul possibile esonero di Longo (in un altro Bari, oggi la squadra sarebbe quantomeno già abbozzata e l’allenatore sarebbe stato già scelto) e la solita ridda di voci alternative da dare in pasto ai tifosi così da mantenerli attivi. L’americano che spunta come i funghi in certi casi come questi, naturalmente è evaporato in una nuvola biancorossa a stelle e strisce. Mentre i vari profili tecnici o di giocatori contano fino a venti prima di accettare Bari perché non intravedono progetti o ambizioni.

Dalla sfida con il Südtirol, la macchina del tempo sembra essersi fermata. Trenta giorni di nulla. Le uniche voci che si rincorrono sono quelle senza volto e senza fondamento. Nel frattempo, la passione si spegne lentamente, come un fuoco lasciato morire senza legna.

Quello che è cambiato radicalmente, però, è l’umore di una piazza che – come i plebei nell’antica Suburra di Roma – non ha più interesse per le manovre di palazzo (il tecnico, la formazione, i moduli), ma chiede pane e dignità. L’attenzione si è spostata. Oggi nessuno si chiede chi sarà il nuovo allenatore: è diventato un dettaglio secondario, marginale. Il problema è un altro, più profondo e strutturale.

L’anima del tifo barese – un tempo acceso come la folla dell’arena che urlava per il gladiatore – oggi guarda con distacco, magari sbirciando comunque i post giornalistici dopo aver gridato urbi et orbi a disertare e a non interessarsi più del Bari (ma qui ci sarebbe aprire un altro dibattito sulla coerenza di tanti tifosi – non tutti per fortuna – che prima spergiurano di non volerne sapere più, invitano tutti alla diserzione, invitano noi della stampa a disertare le conferenze stampa, a non occuparci più del Bari e a non leggere e scrivere più niente, poi si scoprono mille like e duecento commenti nelle varie pagine giornalistiche dei social), a una società che non sembra più avere né ambizione né visione. La famiglia De Laurentiis – che a Napoli ha saputo ottenere l’impossibile con due scudetti in tre anni e partecipazioni in Champions o in Europa League da quando ci sono loro al comando, spendendo, sì, ma sempre ottenendo utili da “David contro Golia” a differenza di altre squadre che si indebitano di cento miliardi e arrivano seconde, quarte o ottave mancando monoplete, biplete, triplete o tetraplete – a Bari si comporta come se l’impresa non valesse nemmeno il tentativo.

Eppure questa città è figlia, sia pur marginale, della Magna Grecia, terra che diede i natali a santi, poeti, navigatori e filosofi. Un popolo abituato alla resilienza, ma che oggi appare sconfitto, deluso, apatico. Non si tratta più di salvezze o promozioni: si tratta di identità. Per questo la frattura tra la piazza e la proprietà, giorno dopo giorno, si allarga come una crepa su un affresco bizantino.

Nel frattempo, altrove si costruisce. A Como si coccola Cesc Fàbregas, che sarà pure un neofita in panchina, ma rappresenta un progetto, una direzione, si trattiene pure Nico Paz ricercato da mezzo mondo. Mentre Bari perde anche i profili più modesti, come Obaretin e Coli Saco. Badando, però, a cedere subito Dorval per monetizzare sotto il Vesuvio. Tutto questo mentre in città cresce un sentimento che somiglia molto alla rassegnazione. Come se fosse normale restare intrappolati in un destino da “provincia calcistica”. Qui se tutto va bene, sarà il caso di aspettarsi il solito manipolo di giovanotti dalla serie D o C che vogliono mettersi in evidenza cercando il trampolino di lancio, i soliti 32enni in cerca di finestre per provare ad andare in pensione anticipata, i soliti scarti semirotti (ma questi arrivano in genere a gennaio), i prestiti a vario titolo o i convalescenti alla ricerca del rilancio che, come dice l’evidenza, non avviene quasi mai, magari azzeccandone una tantum uno salvo poi rivenderlo, in genere al Napoli. Mentre invece Bari attende ben altro.

C’è qualcosa di profondamente stonato nel vedere uno stadio da 60 mila posti trattato come un campo di periferia. Come se il Colosseo venisse utilizzato per ospitare sagre di quartiere. I fasti del passato – le pur occasionali vittorie all’Olimpico o a San Siro – sembrano oggi reliquie di un tempo mitologico, buone solo per riempire le pagine dei libri o i racconti dei padri ai figli.

Aurelio De Laurentiis ha dichiarato senza mezzi termini che non venderà mai il Napoli, nemmeno per due miliardi. Il messaggio implicito è chiaro: il Bari, in questa gerarchia aziendale, è un satellite senza gravità. E la multiproprietà – che già nell’antichità avrebbe rappresentato un conflitto di interessi degno delle accuse del Senato romano magari dalla voce di Orazio – qui diventa un freno, un alibi, una condanna.

Nel frattempo, lo “zoccolo duro” dei tifosi comincia a sfilarsi. C’è chi dice basta, chi non rinnoverà l’abbonamento. Il patto tacito tra squadra e città – quel vincolo quasi sacrale – si è rotto. Come se la fiaccola olimpica si fosse spenta, e nessuno avesse il coraggio di riaccenderla.

Forse è arrivato davvero il tempo di riflettere se non sia meglio tornare a una gestione familiare, imperfetta quanto si vuole, con le vendite dopo sei mesi dei giocatori più bravi come accaduto coi Matarrese tarpando, come per i De Laurentiis, le ali ai tifosi, ma almeno ancorata al territorio. Perché continuare così significa solo allungare l’agonia di una storia che rischia di finire nella cronaca minore del calcio italiano.

E il silenzio, ora più che mai, rimbomba come l’eco in un anfiteatro vuoto.

E’ stato meglio conoscersi che non esserci mai incontrati“, Fabrizio De André in “Giugno ’73”. Ma anche: “Mi son trovato a governare Roma costruita coi mattoni. La lascio per sempre col marmo“. disse Ottaviano Augusto in punto di morte, secondo la testimonianza di Svetonio nella sua “Vita da Augusto”. Ecco, per il bene della città e del buon senso, questo è l’auspicio di tutti. Senza polemica e da buoni amici perché il passato non si dimentica ma per il futuro occorrono certezze miste a legittime ambizioni. Il Bari in B “deve” lottare per arrivare tra le prime due, non per raggiungere i playoff, men che meno deve lottare per salvarsi. Perchè Bari non è Lecco, né Cosenza.

Massimo Longo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.

Traduci
Facebook
Twitter
Instagram
YouTube