Di Domizia Di Crocco
In un’Italia sempre più polarizzata tra la percezione dell’insicurezza e la retorica della repressione, parlare di sicurezza e forze dell’ordine è un esercizio di equilibrio. Da un lato, la richiesta dei cittadini di maggiore protezione è legittima e crescente. Dall’altro, l’azione delle forze dell’ordine, pur fondamentale, è talvolta oggetto di critiche per eccessi, lacune e, in certi casi, abusi.
Nel mezzo, la politica – spesso più incline a cavalcare l’emozione che a costruire soluzioni sistemiche – e una società che rischia di assuefarsi tanto all’illegalità quanto alla militarizzazione dello spazio pubblico.
Secondo l’ultimo rapporto ISTAT sulla sicurezza, i reati in Italia sono in calo da anni. Eppure, la percezione dei cittadini va nella direzione opposta: paura, insicurezza, sensazione di abbandono. Questo scollamento è figlio di diversi fattori: dall’impatto emotivo di episodi violenti amplificati dai media, alla presenza visibile del degrado urbano, fino all’insufficiente comunicazione istituzionale.
Le forze dell’ordine sono spesso in prima linea nel tamponare ciò che la politica non ha saputo prevenire: disagio sociale, criminalità organizzata, microdelinquenza. Ma sono anche vittime di un sistema che, pur affidandosi a loro, le lascia spesso senza risorse, sotto organico e con una formazione non sempre adeguata ad affrontare le nuove sfide.
Essere carabiniere, poliziotto, agente della municipale oggi in Italia significa camminare sul filo. Aumentano i rischi, le aggressioni, le aspettative. Ma aumentano anche le responsabilità etiche e civili: chi porta una divisa rappresenta lo Stato, e ogni comportamento scorretto mina la fiducia collettiva.
I recenti casi di presunti abusi – ancora tutti da verificare nei tribunali – hanno riacceso un dibattito che non può essere ridotto a tifoserie. Difendere l’onore delle forze dell’ordine non significa negare l’esistenza di mele marce, né rifiutare il principio di responsabilità individuale. Ma è altrettanto pericoloso cedere alla narrazione secondo cui l’intero apparato repressivo sia corrotto o autoritario.
La vera sfida è costruire un modello di sicurezza che sia efficace, ma soprattutto democratico. Questo significa investire in formazione, in trasparenza, in dialogo con i territori. Significa dotare gli operatori non solo di armi e mezzi, ma di strumenti culturali per comprendere e gestire una società che cambia.
Serve una politica meno ossessionata dall’“emergenza sicurezza” e più orientata alla prevenzione, alla mediazione sociale, al presidio educativo. Serve una magistratura autonoma e un controllo civico attivo, non ideologico. E serve che i cittadini si sentano non solo protetti, ma parte di una comunità coesa, dove la legalità è un patto condiviso, non un’imposizione.
Non c’è sicurezza senza fiducia. E non c’è fiducia senza giustizia, trasparenza e rispetto reciproco. Le forze dell’ordine italiane meritano riconoscimento, ma anche riforme coraggiose. Perché proteggere i cittadini non significa solo intervenire dopo il crimine, ma costruire un paese in cui la paura non sia la bussola delle nostre scelte collettive.