di Domizia Di Crocco
Negli ultimi anni, si è fatta strada una forma di persecuzione silenziosa, invisibile ma devastante: lo stalking organizzato, noto internazionalmente anche come gang stalking. Una realtà che, a dispetto delle sue gravi implicazioni, continua a muoversi nell’ombra, protetta dal vuoto normativo e da un sistema giudiziario spesso impreparato – o riluttante – ad affrontarla.
Nonostante strumenti come la Direttiva anti-SLAPP – pensata per proteggere giornalisti, attivisti e cittadini da azioni legali intimidatorie – siano un passo avanti, nel contesto concreto della persecuzione sistematica, queste tutele si rivelano, in troppi casi, inefficaci o inapplicabili.
Lo stalking organizzato, a differenza delle forme tradizionali di molestia, si fonda su dinamiche collettive: una rete coordinata di individui che, con finalità persecutorie, agisce in modo frammentato ma continuativo. Le vittime raccontano di essere seguite, sorvegliate, isolate, screditate nella vita privata e professionale. Ma il punto cruciale è che questa forma di stalking non è formalmente riconosciuta come reato autonomo nell’ordinamento italiano.
Nel nostro Codice Penale, i riferimenti più vicini sono gli atti persecutori (art. 612-bis c.p.), le molestie, o in certi casi le diffamazioni. Tuttavia, la mancanza di un riconoscimento giuridico specifico per lo stalking “di gruppo” lascia spesso le vittime senza un canale legale efficace. Peggio ancora: chi denuncia può diventare, paradossalmente, il bersaglio di controquerele.
Le vittime, infatti, vengono accusate di diffamazione, calunnia o instabilità mentale. E qui entra in gioco la natura insidiosa delle SLAPP – azioni legali intentate non per ottenere giustizia, ma per zittire, logorare psicologicamente e isolare socialmente la persona.
Uno degli aspetti più inquietanti è che la reazione delle istituzioni – forze dell’ordine, magistratura, ma anche professionisti del settore sanitario – tende spesso a medicalizzare la denuncia. Non è raro che una persona che segnala stalking organizzato venga inviata a visita psichiatrica o liquidata con formule come “disturbi paranoidi” o “delirio persecutorio”.
Questo tipo di etichettamento non è solo offensivo: è una negazione istituzionale della realtà. Le prove – se ci sono – vengono sminuite, archiviate, o non raccolte in modo appropriato. Il tutto mentre il persecutore resta impunito, e spesso protetto da reti di complicità.
Il nodo più oscuro, e spesso indicibile, emerge quando chi partecipa alla persecuzione ha accesso a strumenti di potere: politici locali, operatori sociali, medici, avvocati, perfino membri delle forze dell’ordine. In questi casi, la vittima è letteralmente accerchiata da una macchina opaca, che utilizza i canali istituzionali non per difendere, ma per colpire chi chiede aiuto.
La realtà è che esiste una zona grigia tra legalità e abuso, in cui anche le tutele formali – come la Direttiva anti-SLAPP – diventano carta straccia se non accompagnate da una reale volontà politica e giudiziaria di riconoscere il problema.
È tempo che il legislatore italiano apra gli occhi: serve una norma specifica contro lo stalking organizzato, che riconosca l’aggravante della persecuzione collettiva e sistematica. Serve una formazione obbligatoria per magistrati, psicologi forensi e operatori delle forze dell’ordine. E serve, soprattutto, una cultura della presunzione di credibilità della vittima, che oggi manca clamorosamente.
Le SLAPP sono solo una parte del problema. Il vero tema è: cosa succede quando il sistema di protezione si trasforma in uno strumento di oppressione?
Fino a quando non risponderemo a questa domanda, continueremo a fingere che lo stalking organizzato non esista. Ma le sue vittime esistono. E chiedono giustizia.
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foto Salvo Juribus