Shades of Chet: cinque geni al bar

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Rava, Fresu, Bollani, Pietropaoli e Gatto insieme dopo vent’anni alla Casa del Jazz per l’apertura di Summertime 2025

Ci sono momenti in cui il jazz smette di essere semplice suono e diventa qualcosa di più profondo. Una conversazione intima tra anime affini, un dialogo senza parole dove ogni pausa ha il peso di un discorso non detto.

È quello che è accaduto alla Casa del Jazz dove Enrico Rava, Paolo Fresu, Stefano Bollani, Enzo Pietropaoli e Roberto Gatto hanno dimostrato che vent’anni di distanza non sono nulla quando la musica scorre con la stessa naturalezza del sangue nelle vene.

Dal primo brano è stato evidente che non si trattava di una semplice reunion nostalgica. I cinque musicisti si sono ritrovati con la schiettezza di vecchi amici che si incontrano al bar dopo anni, ma invece dei discorsi hanno usato i loro strumenti per raccontarsi cosa è successo nel frattempo.

Il repertorio ha alternato standard del songbook americano a composizioni più moderne, offrendo a ciascun musicista di esprimere la propria cifra stilistica. Rava ha mantenuto il suo modo di costruire il fraseggio, che lo distingue dalla scuola hard bop americana, e ha sviluppato i suoi interventi secondo una logica narrativa lineare. “Just Friends” il trombettista genovese ha privilegiato l’espressività del fraseggio rispetto al virtuosismo tecnico, evidenziando una ricerca timbrica affinata attraverso decenni di percorso artistico internazionale.

Con “My Funny Valentine“, brano che Baker aveva reso suo marchio di fabbrica, Fresu ha utilizzato la sua consueta tecnica di controllo dinamico, alternando registro grave e acuto con transizioni fluide. Il musicista sardo ha sfruttato l’uso della sordina per creare contrasti timbrici, mentre le sue radici mediterranee sono emerse nell’approccio alle blue notes, trattate con attenzione particolare alle inflessioni modali, frutto del suo percorso nel jazz etnico.

Il dialogo tra i due ottoni ha messo in luce due concezioni diverse dell’improvvisazione. Rava più orientato alla costruzione melodica, Fresu più focalizzato sull’esplorazione timbrica. Entrambi hanno dimostrato come vent’anni di carriera separata abbiano arricchito il loro linguaggio comune senza snaturarlo.

 

Stefano Bollani (ph web)

Al piano, Bollani nella lettura a “Everything Happens to Me” ha utilizzato voicing complessi ispirati all’armonia impressionista, senza mai perdere la solidità della pulsazione ritmica. Il suo modo di suonare, influenzato tanto da Bill Evans quanto da Keith Jarrett, si è manifestata nell’uso attento dei pedali e nella gestione degli spazi tra le note. Le sue riarmonizzazioni hanno seguito logiche contrappuntistiche che rivelano lo studio del repertorio bachiano.

 

La sezione ritmica ha mostrato un background maturato in decenni di collaborazioni. In “Bye Bye Blackbird” Pietropaoli ha costruito linee di basso che seguono principi di condotta melodica, alternando tecniche di walking bass a passaggi in pizzicato. Il contrabbassista romano, formatosi alla scuola di Giovanni Tommaso, ha conservato un suono pieno e un flusso armonico solido, che ha fornito le fondamenta per gli sviluppi improvvisativi dell’ensemble.

Gatto ha confermato la sua modalità minimalista durante “Doodlin‘”, privilegiando l’uso delle spazzole e costruendo pattern ritmici basati su accenti spostati. La sua formazione nel jazz fusion degli anni Ottanta è emersa nella lettura dei ritmi, filtrata da una sensibilità compiuta che privilegia l’essenziale rispetto all’esibizione virtuosistica.

L’ensemble ha raggiunto momenti di massimo equilibrio timbrico su “Oleo“, quando ogni musicista ha saputo mantenere la propria identità stilistica all’interno di un discorso collettivo coerente. La scaletta ha alternato brani come “Retrato em Branco e Preto” che richiedevano approcci diversi, dal blues al Latin jazz, dagli standard bebop alle ballad, dimostrando quella ricerca espressiva che distingue i musicisti con una grande esperienza concertistica.

 

Roma, Shades of Chet (ph Casa del Jazz)

Le improvvisazioni hanno mostrato maggiore controllo formale e uno studio armonica più sofisticato rispetto alle registrazioni del 1999, segno di un’evoluzione che non ha tradito lo spirito originale del progetto, ma lo ha approfondito.

 

L’acustica della Casa del Jazz ha favorito la percezione dei dettagli timbrici e dinamici. La dimensione del venue e le accortezze tecniche nel monitoraggio sul palco hanno permesso di apprezzare le sottigliezze interpretative che caratterizzano questo tipo di jazz cameristico.

Quando la serata si è conclusa, era chiaro che “Shades of Chet” non era solo tornato, ma aveva dimostrato che certe alchimie musicali non conoscono tempo. Vent’anni dopo, la magia era intatta. E Chet Baker, da qualche parte, deve aver sorriso.

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