De Laurentiis parla, ma il Bari resta sospeso

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Luigi De Laurentiis ha parlato. Dopo settimane di silenzio, lo ha fatto con tono pacato, consapevole, in alcuni momenti persino vulnerabile. Ma al netto delle dichiarazioni, dei richiami alla “responsabilità” e al “progetto”, la sostanza resta quella di un presidente che si muove in equilibrio tra il dovere di tenere in piedi un’azienda sportiva e il desiderio di chiudere al meglio la propria avventura. “Ho tre anni davanti”, ha detto, “ma voglio consegnare il Bari in Serie A a una proprietà solida”. Non è una dichiarazione d’amore: è un piano industriale. E non c’è nulla di male in questo. Basta capirlo.
Alla mia domanda – diretta, secca, inevitabile – se davvero la Serie B sia considerata un costo a perdere, un investimento senza ritorno, e se l’obiettivo vero non sia quello di salire in A per rendere il club più appetibile sul mercato, non ho ottenuto la risposta che cercavo. Era, forse, troppo esplicita. Ma il non detto, a volte, è altrettanto eloquente. Se davvero si vuole vendere – e non a truffatori, mestieranti e nostalgici del clientelismo sportivo – allora perché non provarci da subito, con convinzione, con progettualità, con un piano sportivo ambizioso?
Perché qui, nonostante gli annunci, si naviga ancora a vista. “Abbiamo una rosa da costruire su misura per Caserta”, “abbiamo un budget giusto per la categoria”, “non possiamo alzare gli investimenti rispetto agli anni passati”: parole che raccontano un equilibrio precario, quello di una società che non può più sbagliare, ma non osa rischiare. E Bari, nel frattempo, resta sospesa. Non retrocede, non sale. Galleggia.
È in questo contesto che diventa ormai sterile – oltre che stucchevole – il paragone con Napoli. Il refrain dei “figli di un dio minore”, delle due facce della multiproprietà, del Sud che si spacca in due: quello fortunato e quello che deve accontentarsi. È un dibattito inutile. Il presidente lo ha ripetuto più volte: Napoli e Bari sono due universi economici distinti. Da un lato, una società che incassa centinaia di milioni da diritti TV, sponsor internazionali, plusvalenze da Champions League; dall’altro, una realtà che vive di risorse scarse, su un palcoscenico – la Serie B – dove i costi sono elevati e i ricavi pressoché inesistenti. Pretendere che i due mondi siano trattati allo stesso modo significa ignorare le regole base del mercato.
Ma allora viene spontaneo chiedersi: se davvero non si può investire di più, se il pareggio di bilancio è la priorità, se l’unico modo per crescere è trovare soci solidi, perché si continua a navigare nell’ambiguità? Si parla di trattative riservate, di contatti, ma “non c’è nulla di concreto sul tavolo”. Ancora. Dopo anni di attesa. Dopo promesse mai pienamente mantenute.
Eppure, la tifoseria barese – anche nelle sue contraddizioni – merita una chiarezza che da troppo tempo manca. Non si può parlare di “ambizione” e, nello stesso respiro, accettare la mediocrità come destino. Non si può evocare la Serie A come obiettivo se poi si costruisce una squadra “in linea” con budget di sopravvivenza. Non si può chiedere compattezza quando l’ambiente è diviso in mille rivoli, senza un’idea comune, senza una direzione condivisa.
Il problema non è solo tecnico, né solo societario. È culturale. È la mancanza di una visione. È l’assenza di una leadership che sappia ispirare, oltre che amministrare. È, in fondo, la sensazione diffusa che il Bari sia sempre sull’orlo di qualcosa, ma non si sa mai bene di cosa. Una promozione, un fallimento, un cambio di proprietà, una rivoluzione tecnica. Tutto e il contrario di tutto, spesso nella stessa settimana.
Si continua a lavorare, certo. Si parla di nuovi sponsor, di maglie da svelare, di una rosa da ringiovanire, di un allenatore motivato. Si resta nel solito limbo dove l’intenzione nobile non si sposa con l’azione concreta. Dove le domande sono tante, ma le risposte poche. E dove, soprattutto, l’unico vero rischio è quello di restare immobili. Perché se è vero che chi si ferma è perduto, allora il Bari è già da troppo tempo fermo, inchiodato a un presente senza slanci.
Il tempo delle promesse è finito. Quello delle scuse, pure. Serve una scelta. Serve un’idea. Serve un coraggio che non sia solo dichiarato, ma praticato. Altrimenti continueremo a raccontarci – da una curva all’altra, da un post all’altro – che “tanto è tutto inutile”, ma senza nemmeno provare a cambiarlo davvero.
Massimo Longo

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