Infanzia in sovrappeso: quando il cibo diventa una questione culturale, non solo nutrizionale

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di Enrica Marcenaro

Un bambino su tre in Italia ha problemi di peso. Uno su dieci è obeso.
I dati sono ufficiali, aggiornati e allarmanti. L’ultima rilevazione del sistema nazionale di sorveglianza “OKkio alla SALUTE”, coordinato dall’Istituto Superiore di Sanità, fotografa una realtà che ormai non può più essere ignorata: quasi il 30% dei bambini italiani tra i 6 e i 10 anni è in sovrappeso o obeso. In alcune regioni del sud, il dato supera anche il 35%. È la fotografia di un’epidemia silenziosa, che cresce nei carrelli della spesa, nei ritmi quotidiani, nei piatti che si svuotano e nei corpi che si appesantiscono.

 

Le cause? Tante, interconnesse, e ben lontane dalla semplificazione “mangia troppo e si muove poco.”
Sì, il consumo eccessivo di zuccheri, grassi e alimenti ultraprocessati gioca un ruolo importante. Ma non basta a spiegare tutto. C’è uno stile di vita sempre più sedentario, fatto di ore davanti a schermi, spazi urbani poco adatti al gioco, tempi familiari compressi.
E soprattutto, c’è una cultura che, ancora troppo spesso, non riconosce il problema come tale.

Molti genitori non vedono il sovrappeso dei figli come un campanello d’allarme, ma come “robustezza” o “fase passeggera”. E intanto, nel silenzio, il rischio aumenta: diabete di tipo 2, ipertensione, disturbi articolari, ma anche isolamento sociale, bassa autostima e discriminazioni a scuola.

 Le mense scolastiche: educazione o parentesi?

In questo scenario, la scuola ha un ruolo cruciale. La mensa non è solo un servizio, ma un’occasione educativa. Le linee guida ministeriali lo dicono chiaramente: un pasto bilanciato, servito in un contesto di convivialità e rispetto, può insegnare a mangiare meglio, a scegliere meglio, a conoscere il valore del cibo.

E in molte realtà italiane accade davvero: menù stagionali, piatti equilibrati, laboratori sull’alimentazione, orti didattici. Ma c’è un grande limite: la mensa educa solo se la famiglia accompagna.
Perché se a scuola il bambino mangia verdure al vapore e a casa trova ogni sera cibo pronto, merendine e bevande zuccherate, il messaggio si frantuma. L’educazione alimentare non può essere delegata, deve essere condivisa.

E invece, troppo spesso, le famiglie sono escluse o poco coinvolte. Non conoscono i menù, non partecipano a incontri formativi, non ricevono strumenti per portare avanti a casa ciò che a scuola si prova a trasmettere. Il risultato? La mensa diventa una parentesi, non un percorso.

 La pubblicità: un nemico sottovalutato

A complicare tutto, c’è una terza forza che lavora contro l’educazione alimentare: la pubblicità.
In Italia, oltre il 50% degli spot rivolti ai bambini promuove prodotti ipercalorici, ricchi di zuccheri e grassi. Lo fa con mascotte simpatiche, colori sgargianti, giochi a premio.
Il bambino è il bersaglio perfetto. E il genitore, spesso stanco o disinformato, cede.

Non esiste ancora una regolamentazione davvero efficace a livello nazionale. Le aziende si autoregolano, ma i limiti sono deboli. L’OMS ha più volte sollecitato l’Italia a intervenire con norme più severe, a tutela dei minori. Ma le pressioni del mercato sono forti, e le politiche pubbliche lente.

 Più lentezza, più ascolto, più coraggio

Nel frattempo, l’obesità infantile cresce. Non solo in peso, ma in disuguaglianza. Perché colpisce di più chi ha meno strumenti, meno tempo, meno risorse. Chi vive in quartieri senza parchi, chi non può permettersi lo sport, chi lavora troppo per cucinare con calma.
Il tempo, in effetti, è una delle chiavi dimenticate del problema.
Mangiare bene richiede tempo. Educare richiede tempo. Ascoltare, cucinare, correggere, proporre: tutto si gioca in quella dimensione lenta che oggi sembra quasi un lusso.

Eppure proprio lì, nella lentezza, potrebbe nascere un nuovo modello.
Uno in cui la scuola e la famiglia collaborano, le istituzioni supportano, la pubblicità è regolata e il bambino è messo al centro — non del marketing, ma della cura.

Non serve un’ossessione salutista. Serve equilibrio. Serve presenza.
Serve restituire al cibo il suo valore reale: non solo carburante, ma cultura, scelta, relazione

foto Agenzia Dire

One Reply to “Infanzia in sovrappeso: quando il cibo diventa una questione culturale, non solo nutrizionale”

  1. UP ha detto:

    Problema enorme e sottovalutato

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