Nell’afa estiva di Sarajevo, dove le pietre del lungofiume Miljacka sussurrano ancora memorie di sangue e rivoluzione, il 28 giugno 1914 un giovane uomo di diciannove anni, con la schiena curva e uno sguardo che bruciava di ideali, cambiò per sempre il corso della storia.
Gavrilo Princip, studente serbo-bosniaco stretto nella morsa di un patriottismo viscerale e con una Browning nascosta in tasca, non sparò solamente all’arciduca Francesco Ferdinando d’Asburgo: fu lui ad accendere la miccia di un ordigno che esplose in quattro anni di guerra, spezzando dieci milioni di vite e causando il crollo di quattro imperi.
Ma chi erano veramente questi uomini che osarono sfidare l’aquila bicipite? E perché quel gesto, intessuto di un idealismo tanto puro quanto di un freddo calcolo geopolitico, divenne il simbolo perfetto dell’orgoglio slavo e, allo stesso tempo, dell’imprudenza asburgica?
Francesco Ferdinando, erede di un impero in agonia, scelse il giorno peggiore possibile per una parata trionfale a Sarajevo. Il 28 giugno, “Vidov Dan”, era una data sacra per i serbi: l’anniversario della sconfitta contro i turchi nel 1389, una ferita che non si era mai rimarginata nel profondo dell’anima popolare. Presentarsi in pompa magna, con l’uniforme da ammiraglio e a bordo di una carrozza scoperta, in una Bosnia da poco annessa e già in ebollizione per via del nazionalismo crescente, fu un atto di “hybris” degno delle più grandi tragedie greche.
«Vennero a piantare le loro bandiere proprio dove bruciavano ancora i nostri sogni di indipendenza», commentò anni dopo Vasa Čubrilović, l’ultimo sopravvissuto della “Mlada Bosna” (Giovane Bosnia), quel gruppo rivoluzionario che si ispirava alla Giovine Italia di Mazzini.
Il corteo si rivelò una sequenza di fatali ironie. La prima bomba, lanciata da Nedjelko Čabrinović, rimbalzò sulla carrozza e ferì solo alcuni ufficiali della scorta. L’arciduca, miracolosamente illeso, giunse al municipio per rimproverare le autorità locali con un sarcasmo degno dell’ultimo banchetto dei Borgia: «Dunque, è con le bombe che preparate le accoglienze?». Decise quindi di modificare l’itinerario, ma l’autista, disorientato e forse anche spaventato, svoltò per errore in via Franz Joseph, dove Princip, reduce da un panino al “ćevapi”, si ritrovò a soli tre metri dal suo bersaglio.
Partirono due colpi: uno raggiunse la giugulare di Sofia, duchessa di Hohenberg, l’altro recise l’arteria cervicale dell’arciduca. «Non è niente, non è niente», mormorò Francesco Ferdinando prima di affondare nel sangue del cuscino. Il Secolo Breve stava iniziando con un rosso atto di follia.
«Non è un attentato, è una vera e propria dichiarazione di guerra!» urlò il barone Rumlin, aiutante di campo, mentre la folla si disperdeva in un mare di urla. Vienna trasformò il sangue dell’arciduca in benzina per alimentare il revanscismo. L’ultimatum alla Serbia – umiliante, con clausole che di fatto annullavano la sua sovranità – fu scritto con la piena complicità di Berlino, convinta che la Russia avrebbe esitato ad intervenire. Ma si sbagliavano, e di grosso. Come falene irresistibilmente attratte dalla fiamma, le potenze europee corsero verso l’abisso: la mobilitazione zarista, il “Drang nach Westen” tedesco, l’invasione del Belgio neutrale. Entro il mese di agosto, l’Europa era diventata un immenso campo di trincee. «Abbiamo giocato con il fuoco nei Balcani e ora il mondo intero brucia», ammise il cancelliere Bethmann-Hollweg nel 1916, mentre Verdun divorava più di 300.000 anime.
Princip, magro come un’ombra e già minato dalla tubercolosi, rifiutò ostinatamente ogni pentimento durante il processo. «Ho voluto vendicare un popolo oppresso», dichiarò con fierezza, mentre i giudici asburgici lo condannavano a vent’anni di carcere – essendo troppo giovane per la pena capitale. Morì il 28 aprile 1918 nella fortezza di Terezín, consumato dalla tisi, senza sapere che la sua pallottola aveva già demolito l’ordine ottocentesco. La sua cella divenne un santuario laico per tutti gli slavi del sud, mentre i vincitori di Versailles lo bollavano come un semplice «terrorista» per poter legittimare la nascita della Jugoslavia.
Quel colpo di pistola non solo scatenò la Grande Guerra, ma generò un vero e proprio terremoto geopolitico: gli Asburgo svanirono nel 1918, gli Ottomani si ritirarono in Anatolia e la Russia zarista implose nella rivoluzione. Al posto degli imperi sorsero stati-nazione fragili, portando con sé ferite territoriali (dai Sudeti al Corridoio di Danzica) che Hitler avrebbe riaperto solo vent’anni dopo. Lo stesso idealismo di Princip, tragicamente distorto, alimentò sia i partigiani titini sia i carnefici di Srebrenica.
«Ogni epoca ha il suo Princip», scrisse lo storico Joachim Remak: un gesto individuale che incarna tensioni sistemiche, un grido di ribellione che si trasforma nel boomerang della storia. Oggi, a Sarajevo, una targa sul ponte Latino recita: «Qui ebbe inizio la libertà». Ma la libertà di chi, esattamente? La domanda, come il ruggito di quel lontano 1914, continua a risuonare ancora oggi.
RVSCB
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