C’era una volta un ragazzo con la chitarra al collo, le storie della working class stampate in faccia e la voce roca di chi la vita l’ha conosciuta davvero. Era il 21 giugno 1985 quando Bruce Springsteen salì per la prima volta sul palco di San Siro. Nessuno poteva immaginare che quella sera avrebbe dato inizio a una delle storie d’amore più lunghe e intense della musica live in Italia. Quarant’anni dopo, giovedì scorso, quel cerchio si è chiuso – o forse solo interrotto – con un concerto che sa di bilancio e di promessa, davanti a 65.000 persone strette come in un rito collettivo.
Alle 20 in punto, la sagoma di Springsteen è apparsa tra il boato. Elegante, con camicia bianca, cravatta scura e gilet – un look sobrio che racconta la maturità, ma con la Telecaster sempre stretta in pugno, simbolo di un’identità che non si è mai piegata alla moda del momento. La sua voce ha squarciato l’aria con “No Surrender”, un pezzo che, titolo alla mano, dice tutto di lui: non cedere di un passo, nemmeno ora che di anni ne ha 75 e di chilometri ne ha percorsi più di quanti se ne possano contare. Poi subito “My Love Will Not Let You Down”, mentre sul palco si rivelava la forza della E Street Band, che Springsteen ha presentato con orgoglio come “la leggendaria banda che fa tremare la terra, muovere i culi e prende il viagra”. Perché di E Street Band, lo sappiamo tutti, ce n’è una sola. Per sempre.
E se Bruce è il cuore, la E Street è la sua spina dorsale. C’erano tutti: Roy Bittan al pianoforte con i suoi ricami melodici, Garry Tallent con quel basso discreto ma sempre presente, Max Weinberg che per tre ore ha picchiato la batteria come se fosse un trentenne, Nils Lofgren che ha strappato applausi con gli assoli e le rotazioni su se stesso. E poi Steven Van Zandt, il più amato, noto come Little Steven, che pochi giorni fa ha rischiato di non esserci. Operato d’urgenza di appendicite a San Sebastián, in Spagna, era dato per assente. E invece, pur con il volto segnato dalla fatica, ha stretto i denti ed è rimasto sul palco fino all’ultimo accordo, dimostrando cosa significhi la parola lealtà. Accanto ai veterani, gli innesti più giovani e la nuova sezione fiati: la vocalist Soozie Tyrell, che col violino regala sfumature folk, le trombe e i fiati che aggiungono energia, e soprattutto Jake Clemons, nipote di Clarence, “The Big Man”, che da anni raccoglie la sua eredità con un rispetto e una passione fuori dal comune. Durante “Tenth Avenue Freeze-Out”, come in ogni concerto, Bruce ha fermato tutto e ha proiettato sullo schermo il volto sorridente di Clarence. È stato il momento più struggente della serata, un ponte tra chi c’era e chi non c’è più.
Springsteen non si è limitato a suonare. Prima di “Land of Hope and Dreams”, ha parlato con parole pesanti come macigni: “La mia America, quella che ho raccontato per cinquant’anni, quella che è stata un faro di speranza e libertà per 250 anni, oggi è nelle mani di un’amministrazione corrotta, incompetente e traditrice.”
Sul maxischermo scorrevano i sottotitoli in italiano. Nessuno fiatava. Poco dopo, prima di “Rainmaker”, ha rincarato: “Quando le condizioni di un Paese sono mature per un demagogo, puoi scommettere che si presenterà. Questo è per il caro leader americano.”
E ancora, su “My City of Ruins”, ha aggiunto un messaggio di speranza che sembrava parlare anche a chi era lì ad ascoltarlo: “In America stanno perseguitando chi esercita il diritto di parola e chi osa dissentire. Ma io ho fiducia, perché come scrisse James Baldwin: In questo mondo non c’è tutta l’umanità che si vorrebbe, ma ce n’è abbastanza.”
La serata è stata un viaggio lungo quasi tre ore, tra classici e brani più rari. “Atlantic City”, con il suo racconto di un loser disperato, è stata accolta come un inno generazionale. “The Promised Land” ha portato in platea un senso di riscatto. “Hungry Heart” ha trasformato il Meazza in un unico coro da 58.000 voci. “The River” ha fatto venire i brividi: finita la canzone, la folla ha continuato a cantare il ritornello, costringendo Bruce ad aspettare in silenzio, con un sorriso pieno di gratitudine.
Quando è arrivato il momento di “Born in the U.S.A.”, l’hanno cantata tutti, senza equivocarne più il senso amaro. E nel finale, “Born to Run”, “Bobby Jean”, “Dancing in the Dark” hanno sancito la fusione definitiva tra palco e platea.
In un’epoca di rockettari in cerca di consensi facili, pronti a tenere il piede in ogni staffa politica per accaparrarsi il pubblico più vasto, Springsteen ha continuato a parlare solo a chi lo vuole davvero ascoltare. Non si è mai preoccupato di piacere a tutti e proprio per questo resta universale, amato in ogni latitudine, da Napoli a New York. Mentre tanti sedicenti “artisti” di oggi, tatuati e scollati, spuntano e spariscono nello spazio di un Sanremo, Bruce è lì da oltre cinquant’anni, capace ancora di radunare decine di migliaia di persone solo per sentire un uomo e la sua band raccontare storie che ci appartengono.
Quando alla fine si è spenta l’ultima nota di “Chimes of Freedom”, il Boss si è congedato con un inchino. Lo stadio lo ha salutato con un applauso lungo, denso di riconoscenza.
Era la decima volta che San Siro e Springsteen si incontravano. Forse l’ultima. Ma chi c’era sa che quella sera, su quel palco, non c’era solo un rocker di 75 anni. C’era una parte di vita di tutti noi.
Perché il concerto più bello di Bruce Springsteen è sempre il prossimo. E perché di E Street Band ce n’è una sola. Per sempre.
Massimo Longo