Tregua possibile a breve, accordo politico ancora lontano. Israele e Hamas tornano a negoziare con la mediazione di Stati Uniti, Egitto e Qatar. Il piano prevede rilascio degli ostaggi, ritiro parziale, autorità transitoria e ricostruzione, ma le distanze restano profonde. Prossime ore decisive per verificare impegni concreti
Le delegazioni israeliana e di Hamas hanno ripreso ieri i colloqui indiretti nella località balneare egiziana di Sharm el-Sheikh, con la mediazione congiunta di Stati Uniti, Egitto e Qatar. Sul tavolo c’è il cosiddetto piano in venti punti. Una versione aggiornata del progetto elaborato dall’amministrazione Trump. La sequenza proposta prevede rilascio degli ostaggi, ritiro parziale delle forze israeliane, definizione di una governance transitoria e avvio della ricostruzione.
Netanyahu ha fissato un paletto. Senza il rilascio degli ostaggi non si procede. Hamas ha accettato il principio dello scambio, ma ha lasciato aperti molti punti del piano, rinviando decisioni su questioni centrali.
L’ottimismo mostrato da Trump, e ripreso dal ministro degli Esteri Antonio Tajani, contrasta con una realtà negoziale complessa. I colloqui si svolgono per interposta persona, in stanze separate, le parti non si incontrano direttamente e comunicano attraverso i mediatori egiziani e qatarioti. Le posizioni restano distanti, le agende divergenti. La domanda non è se ci sarà un accordo, ma quale tipo di accordo sia realisticamente raggiungibile nei prossimi giorni, settimane o mesi.
Due scenari possibili
Le fonti concordano nel distinguere due livelli di accordo. Il primo è un cessate-il-fuoco temporaneo accompagnato da uno scambio di ostaggi israeliani contro prigionieri palestinesi. Questo esito è considerato plausibile nel breve termine. Esistono precedenti recenti di pause umanitarie negoziate, la pressione internazionale è forte e le due parti hanno interesse a mostrare aperture.
Hamas può alleggerire la pressione militare e ottenere il rilascio di propri membri, mentre Israele può riportare a casa gli ostaggi e rispondere alle richieste delle famiglie e dell’opinione pubblica.
Il secondo livello è un accordo politico duraturo che affronti la smilitarizzazione di Hamas, la governance futura di Gaza, il controllo della sicurezza e la ricostruzione del territorio. Qui le probabilità calano sensibilmente. Le analisi di istituzioni come Chatham House e le cronache del Guardian evidenziano nodi strutturali che non possono essere risolti da una tregua tattica.
I fattori che spingono verso un accordo
La pressione umanitaria è il motore più concreto della mediazione. La popolazione di Gaza vive da due anni in condizioni critiche, con carenze croniche di cibo, acqua, elettricità e assistenza medica. Le organizzazioni internazionali chiedono corridoi umanitari stabili e la ripresa degli aiuti.
L’urgenza di evitare un collasso totale offre margini per misure immediate, come aperture controllate dei valichi per il passaggio dei convogli. Egitto, Qatar e Stati Uniti hanno investito capitale politico nella mediazione e puntano a risultati tangibili da presentare come progressi concreti.
L’esistenza di un piano articolato aiuta a evitare improvvisazioni. Avere sul tavolo una proposta strutturata in venti punti consente di lavorare su tempistiche, modalità operative e garanzie reciproche, senza dover definire ogni volta l’intero formato dell’accordo. Questo rende plausibile una fase iniziale di attuazione, anche solo parziale.

Delegazioni di Israele e Hamas trattano a Sharm el-Sheikh sotto la mediazione di Stati Uniti, Egitto e Qatar, sul tavolo ritiro parziale e governance transitoria (ph: web)
Gli ostacoli profondi e le contraddizioni
La smilitarizzazione di Hamas è il punto più controverso. Chiedere a un’organizzazione armata che controlla un territorio di deporre le armi equivale a chiederle di rinunciare alla propria ragione d’essere.
Hamas non si è mai dichiarata disposta a farlo senza contropartite politiche sostanziali. Israele considera il disarmo una condizione imprescindibile per qualsiasi soluzione duratura. Il contrasto è politico, prima ancora che militare, e nessuna mediazione tecnica può colmarlo.
Il nodo della governance
La questione della governance post-conflitto è altrettanto problematica. Se Hamas viene smilitarizzata, chi governerà Gaza? L’Autorità Palestinese non ha più una presenza effettiva nel territorio dal 2007 e gode di una legittimità popolare ridotta.
Una gestione internazionale appare difficile da organizzare e non ha precedenti incoraggianti. Lasciare un vuoto di potere equivarrebbe a creare nuove instabilità. Ogni ipotesi di amministrazione transitoria modifica gli equilibri regionali e incontra resistenze da più fronti.
L’ostacolo della politica israeliana
La politica interna israeliana complica il quadro. Il governo Netanyahu è una coalizione fragile, con partiti che si oppongono a concessioni territoriali o politiche. L’opinione pubblica è divisa tra chi chiede il ritorno immediato degli ostaggi a qualsiasi costo e chi ritiene prioritaria l’eliminazione definitiva della minaccia di Hamas. Ogni passo negoziale che implichi un ritiro militare o un riconoscimento implicito della controparte è oggetto di forti contestazioni e rischia di far cadere la maggioranza.
Garanzie e verifiche sul campo
I meccanismi di verifica e garanzia rappresentano un altro nodo operativo. Localizzare gli ostaggi, accertarne le loro condizioni, assicurare il rispetto del cessate-il-fuoco e stabilire chi interverrà in caso di violazioni richiede strutture internazionali solide e mandate chiari. Al momento, non esistono proposte concrete su chi debba assumere questo ruolo di monitoraggio, né sulle modalità di intervento in caso di rottura della tregua.
Timeline possibile
Nei prossimi giorni o settimane è plausibile una prima fase del negoziato: scambio di ostaggi, sospensione parziale delle operazioni e apertura di corridoi per gli aiuti. Tutto dipende dalla capacità delle parti di concordare numeri, tempi e modalità dello scambio. Gli osservatori considerano questo scenario realistico, ma non scontato.
Nel breve termine, da uno a tre mesi, se la tregua regge, potrebbero seguire estensioni della tregua e un avvio graduale della ricostruzione. Ogni incidente, anche isolato, può però compromettere l’intero processo.
Il quadro regionale
Nel medio e lungo periodo, un accordo politico complessivo appare remoto. Hamas dovrebbe accettare una trasformazione radicale del proprio ruolo, mentre Israele dovrebbe ridurre la rigidità delle proprie garanzie di sicurezza. Anche Egitto, Arabia Saudita, Iran e Turchia dovrebbero assumersi responsabilità dirette nella gestione e nella ricostruzione. Al momento, nessuna di queste condizioni sembra matura. Teheran continua a sostenere le milizie armate, Riyadh mantiene un profilo prudente per non compromettere il dialogo con Washington e Ankara alterna aperture diplomatiche a toni più assertivi.

Distribuzione di aiuti a Gaza: corridoi umanitari puntano ad alleviare mesi di carenze di cibo, acqua ed elettricità (ph: UNICEF)
Le prossime 72 ore
Tre elementi aiuteranno a capire la direzione dei negoziati nelle prossime 72 ore. Il primo è l’annuncio di date e modalità concrete per il rilascio degli ostaggi. Il secondo è la sospensione effettiva delle operazioni militari israeliane durante gli scambi e la definizione di chi controllerà la sicurezza e la distribuzione degli aiuti.
Se Israele dovesse continuare i raid mentre si negozia, la tregua sarebbe solo formale. Il terzo elemento è l’accordo su chi gestirà la sicurezza e la ricostruzione nel breve termine. Senza progressi su questi punti, ogni ipotesi di accordo rimane teorica.
Limiti dell’analisi
La situazione resta fluida. Un annuncio politico, un attacco, un rifiuto pubblico possono ribaltare il quadro in poche ore. Le fonti disponibili restituiscono una fotografia parziale, utile per comprendere le dinamiche, ma insufficiente prevederne l’esito.
I negoziati di Sharm el-Sheikh offrono una finestra di opportunità, per quanto limitata. Se questa finestra produrrà risultati concreti o si chiuderà, come altre volte in passato, dipende da fattori politici, militari e diplomatici, che in parte sfuggono al controllo dei negoziatori.















