“La storia non è mai scritta dai neutrali.” — Isaiah Berlin
Il mondo oscilla come una nave in tempesta, spinto da venti contrari e capitani che cambiano rotta ogni giorno. In cima al ponte, Donald Trump finge di guidare la nave con mano ferma, ma le sue manovre servono più ai suoi interessi e a quelli dei suoi alleati economici che a un disegno di stabilità. Israele e la Cisgiordania, la guerra in Ucraina e le tensioni economiche in Italia disegnano oggi una mappa del potere dove diplomazia, profitto e paura si fondono in un’unica nebbia geopolitica, densa di incertezze e opportunismi.
Israele e la Cisgiordania: tra alleanza e ricatto
A Gerusalemme, la Knesset ha sfiorato il passo più pericoloso degli ultimi anni: una legge per estendere la sovranità israeliana a parte della Cisgiordania. È bastata la reazione della Casa Bianca per bloccare tutto. Trump, che solo poche settimane prima assicurava “sostegno incondizionato” a Netanyahu, ha improvvisamente cambiato tono: “Non è questo il momento per avventure — Israele rischia di perdere tutto”, ha dichiarato davanti ai giornalisti.
Netanyahu gioca su due tavoli. Sa che non può rinunciare all’appoggio americano, ma non può nemmeno sconfessare i suoi alleati interni — i nazionalisti religiosi che lo sostengono e chiedono l’annessione da anni. Così procede a scatti, sospende, rilancia e frena. Sul terreno, le colonie si espandono lentamente, la rabbia cresce, e i palestinesi guardano un futuro sempre più chiuso. Israele resta un laboratorio di promesse infrante, calcoli elettorali e tensioni quotidiane, dove ogni decisione ha un riverbero immediato sulle vite dei civili.
Il conflitto, come spesso accade in Medio Oriente, non è solo geopolitico: è sociale, culturale, emotivo. La vita quotidiana dei palestinesi e degli israeliani si intreccia con la politica in modi spesso invisibili agli osservatori esterni. Le scuole, le strade, i mercati diventano testimoni silenziosi di un’occupazione lenta ma implacabile, di una resistenza che non si arrende e di una diplomazia che vacilla tra parole e silenzi.
Russia e Ucraina: la guerra che non finisce e il petrolio come arma
A Est, la guerra continua. La Russia avanza con lentezza ma senza sosta. È una marcia che misura il tempo con i morti e la volontà con la distruzione. Le città si spopolano, i campi diventano cimiteri, e l’Ucraina combatte metro per metro, sostenuta da un Occidente sempre più esitante.
Trump osserva, commenta, poi si irrita. Dopo mesi di esitazioni, ha imposto sanzioni contro il petrolio russo, colpendo l’export energetico e le finanze legate al Cremlino. Mosca ha reagito con rabbia, definendo il provvedimento “atto ostile” e promettendo ritorsioni immediate e simmetriche.
L’effetto delle sanzioni non è solo geopolitico: colpisce i mercati globali, la produzione energetica, la distribuzione industriale e perfino le tasche dei cittadini europei, legati al gas e al petrolio russo. Il prezzo del petrolio oscilla, le forniture diventano oggetto di negoziazione e la paura di una crisi energetica si aggiunge a quella della guerra, trasformando l’Europa in un continente sospeso tra principi e vincoli pratici.
Zelensky continua a chiedere aiuto: “Putin non si fermerà da solo. Se Europa e Stati Uniti non agiranno insieme, pagheranno un prezzo molto più alto.” Per Trump, ogni crisi è terreno di contrattazione globale: sanzioni, tensioni e opportunità di profitto politico si alternano, con conseguenze reali su milioni di vite. Ogni mossa è uno scambio di segnali, un gioco di prestigio tra minaccia e convenienza. La guerra, così, diventa non solo un conflitto armato, ma anche una partita diplomatica dove ogni errore costa caro.
Italia: la manovra, la frattura e il Parlamento come teatro
In Italia, la Legge di Bilancio 2025 è al centro di tensioni interne senza precedenti. La manovra difesa da Giorgia Meloni appare fragile, simbolica, quasi incapace di rispondere ai bisogni reali della sanità, della scuola e degli stipendi pubblici, ma contiene risorse per la difesa e per la politica estera che soddisfano gli alleati internazionali. La maggioranza traballa: tra Lega e Forza Italia le divergenze sono profonde. Salvini accusa gli alleati di “assecondare Bruxelles e svendere il Paese”, Tajani replica che “la responsabilità non si misura con gli slogan”. La premier tenta di mediare, ma nei corridoi di Montecitorio si parla di “una crepa che non si chiuderà presto”, e la stampa parla di un rischio di crisi interna.
In Parlamento, lo spettacolo raggiunge livelli quasi teatrali: sembra un canovaccio scritto da Aristofane e Plauto. Meloni appare arrogante e inflessibile, Schlein spocchiosa e inconcludente, Conte ormai parla a se stesso, mentre Renzi e Calenda arrotolano le parole in dialoghi senza meta. La sinistra sembra alla ricerca di una “quarta gamba” per un tavolo già rovesciato, in un mix di caos, vanità e strategia perduta. Ogni intervento alimenta la confusione e rende chiara la difficoltà di trovare un minimo accordo politico, quasi come se il Parlamento fosse un palco dove le battute e gli errori diventano inevitabili.
Sul fronte medico, il dottor Roberto Burioni ha ammesso in audizione pubblica di ricevere compensi da diverse aziende farmaceutiche, confermando i dati secondo cui quasi il 60% dei medici italiani ha ricevuto finanziamenti da Big Pharma. La confessione, accompagnata da spiegazioni sulla ricerca e sull’innovazione medica, solleva interrogativi sull’indipendenza professionale e sulla trasparenza. I legami tra industria e medicina diventano così parte di un racconto più ampio, dove etica, informazione e interessi economici si intrecciano in modi spesso opachi.
Il riflesso dei potenti
Ciò che unisce Israele, la Russia e l’Italia, al di là delle distanze geografiche, è l’egocentrismo dei leader che li guidano. Trump, Netanyahu, Putin, Meloni: ognuno parla al proprio popolo come a uno specchio, cercando il riflesso della propria forza più che la fiducia degli altri. Trump incarna lo spirito più puro dell’imprevedibilità: cambia idea come cambia umore, firma ordini contraddittori e trasforma la crisi in palcoscenico personale. Ogni sanzione, ogni dichiarazione, ogni silenzio diventa un atto di potere più che di politica responsabile.
L’Europa osserva e teme. Vuole condannare la Russia, sostenere Israele, appoggiare l’Ucraina, ma non vuole perdere il gas né essere trascinata in conflitti diretti. È il continente dei “vorrei ma non posso”. Nel frattempo, ogni scelta americana o russa provoca oscillazioni nei mercati e nelle vite dei cittadini, e il potere sembra una moneta in mano ai pochi che possono spendere e ritirare a piacimento.
Un mondo senza rotta
Così si chiude il cerchio: Israele blocca e rilancia, la Russia avanza e sanguina, l’Italia litiga e si divide, l’Europa osserva, Trump oscilla come un pendolo instabile. La storia, diceva Isaiah Berlin, non è scritta dai neutrali. Oggi, però, non è scritta nemmeno dai vincitori: è scritta dai superstiti, da chi resiste al cinismo dei potenti e ancora crede che la politica possa servire a qualcosa di più del profitto personale.
Incontro storico: Papa Leone XIV e Carlo III d’Inghilterra
In un gesto inatteso, Carlo III d’Inghilterra, durante la sua visita a Roma, ha incontrato Papa Leone XIV. È stato il primo incontro tra un pontefice e un monarca britannico dopo cinque secoli. Il sovrano, con una “visita sobria e contenuta”, ha pregato insieme al Papa nella Cappella Sistina, ribadendo la necessità del dialogo interreligioso. Il gesto, sobrio ma carico di simboli, dimostra che anche nei tempi più frammentati il dialogo e la riconciliazione rimangono possibili.
Questo incontro è diventato un faro di speranza in un mondo dominato da conflitti politici, crisi energetiche e interessi economici: due figure antiche dimostrano che l’umanità e la pace possono ancora essere priorità condivise, anche quando la politica appare cieca e guidata dall’interesse immediato.
Conclusione: tra speranza e realtà
La politica può ancora essere un gesto di coraggio. La verità non è un lusso, ma un dovere. Anche quando i leader cambiano idea ogni giorno, quando le maggioranze si spaccano, quando i medici ricevono compensi da Big Pharma, ci sono gesti — come quello di Carlo III e Papa Leone XIV — che ricordano la possibilità di una bussola morale capace di misurare la giustizia più della potenza.
E in questo momento, più che mai, sembra valere l’eco di Kipling: “Cercasi capitani coraggiosi”, uomini e donne pronti a guidare la nave del mondo contro tempeste che non si fermano. Come in Il Nostromo di Conrad, dove il destino si gioca tra audacia, responsabilità e lealtà, oggi il nostro tempo reclama figure capaci di vedere oltre l’orizzonte immediato, di prendere decisioni difficili e di porre al centro la vita e la giustizia, più che il profitto e l’ego.
È un invito a resistere al cinismo, a rifiutare la passività e a ricordare che la vera leadership non si misura dal potere accumulato, ma dal coraggio con cui si affrontano le tempeste. Solo chi osa può, forse, riscrivere la storia.
In un mondo dove Israele blocca e rilancia, la Russia avanza e sanguina, l’Italia litiga e si divide, e l’Europa osserva con esitazione, restano pochi punti fermi: la morale, il dialogo e il coraggio di chi decide di mettersi al timone. Forse il mondo non ha perso la rotta, forse è solo alla ricerca di capitani degni della loro epoca, pronti a rischiare per l’interesse collettivo, pronti a trasformare le crisi in opportunità di giustizia e non di profitto.
Carlo Di Stanislao














