Negli ultimi mesi il dibattito sulla tassazione degli extraprofitti bancari è tornato al centro della scena economica e politica.
Una discussione più che legittima, se si considera che gli istituti di credito hanno registrato utili record non per un improvviso rilancio dell’attività d’impresa, ma per l’effetto combinato dell’aumento dei tassi d’interesse e della conseguente crescita dei margini sui prestiti.
Questi guadagni straordinari non derivano quindi da un rischio imprenditoriale, bensì da una congiuntura favorevole che ha moltiplicato i profitti senza un corrispondente beneficio per l’economia reale. È dunque giusto chiedersi se sia equo lasciare interamente tali risorse nelle casse delle banche o se non sia opportuno che una parte ritorni alla collettività, attraverso una forma di imposizione straordinaria.
C’è poi un aspetto che rende la questione ancora più urgente: mentre gli utili crescono, le grandi banche italiane continuano a ridurre la loro presenza sul territorio. Gli sportelli operativi diminuiscono, i servizi si digitalizzano in modo spesso forzato e la relazione con la clientela si indebolisce.
Per molti cittadini, in particolare anziani o residenti nei piccoli centri, l’accesso ai servizi bancari è diventato più difficile. File agli sportelli rimasti, difficoltà di contatto con il personale, assistenza ridotta a procedure automatiche. Tutto questo mentre i bilanci degli istituti segnano risultati da record.
A questo si aggiunge un’altra contraddizione: le banche sembrano sempre meno orientate a finanziare lo sviluppo del tessuto produttivo nazionale. Le start up, specie quelle giovanili o legate all’innovazione, faticano a trovare credito. Il rischio, per il sistema Paese, è di frenare l’energia imprenditoriale e la crescita di nuove idee proprio nel momento in cui sarebbero più necessarie.
Molti istituti preferiscono concentrarsi su attività a margine più sicuro — come il comparto assicurativo o le commissioni sui servizi — anziché assumersi la funzione di volano dell’economia reale, che storicamente rappresenta la missione originaria del credito.
La tassazione degli extraprofitti non deve essere letta come un atto punitivo, ma come un meccanismo di riequilibrio e di giustizia economica.
In un momento in cui famiglie e imprese affrontano costi crescenti e un credito sempre più selettivo, è legittimo chiedere al sistema bancario di restituire una parte di ciò che ha guadagnato grazie a fattori esogeni.
Le banche non sono solo operatori di mercato: sono infrastrutture sociali fondamentali. Hanno il compito di sostenere lo sviluppo, non di estrarre valore dal sistema senza redistribuirlo.
Tassare gli extraprofitti, in questa prospettiva, non è un tabù. È un segnale di responsabilità e di equità, un passo verso una finanza più vicina all’economia reale e ai cittadini.
Francesco Magisano















Ancora con questo concetto di extraprofitti giuridicamente inesistente. trattasi di un neologismo a giustificazione di un furto legalizzato. Sfugge il fatto che a maggiori utili corrispondono maggiori imposte. Le banche, oltretutto, a differenza di ogni altra attività economica scontano già un’addizionale IRES.
Le banche sono società che mirano a realizzare utili, questo concetto si esiste in diritto ed economia, non sono delle cooperative sociali. Il profitto è più che lecito non è un tabù. Basta con gli “assalti alla diligenza” sbandierando “doveri sociali” che sono a carico dello stato non della libera impresa.
Il tutto senza considerare che si allontano gli investitori e si colpisce ulteriormente il risparmio già super tartassato nonostante le previsioni di tutela enunciate dalla costituzione.
Tralasciando che per 9 anni i tassi erano a zero