“La grandezza non si misura dalla fama”: Pino De Matti, reduce dalla XX edizione del Festival di Roma, racconta il mestiere dell’attore lontano dai riflettori
Nell’immaginario comune, la grandezza di un artista spesso coincide con la fama, i premi e il riconoscimento pubblico. Eppure, dietro ogni capolavoro, dietro ogni nome che brilla sotto i riflettori, c’è un ecosistema di attori, tecnici e creativi che hanno contribuito in modo decisivo alla costruzione di un’opera senza mai conquistare le prime pagine.
Sono coloro che lavorano nell’ombra, gli artigiani della scena, quelli che sostengono la struttura dei racconti senza chiedere nulla in cambio, se non la possibilità di continuare a creare.
Il loro contributo non si misura in follower, titoli o premi, ma dalla qualità e dall’autenticità del lavoro. Sono quegli interpreti che hanno dato spessore a centinaia di film senza mai diventare star.
Uno di questi è Pino De Matti, tornato alla ribalta per la sua interpretazione di Porry Pastorel in “Dovere Civile”. Il cortometraggio, voluto dal comune di Castel San Pietro Romano su iniziativa del sindaco Giampaolo Nardi, con la regia di Piero Calvarese, è stato realizzato e prodotto dalla “Libera Università del Cinema”, diretta da Francesca Scandurra. Tratto da “La staffetta dei cieli” di Igor Geat, l’opera è stata presentata alla ventesima edizione della Festa del Cinema di Roma.
De Matti non è nuovo a questo ruolo. Già prima aveva dato volto e corpo in due precedenti produzioni, nel documentario “Controluce” e nel film “Sulle Tracce di Porry Pastorel”.
Adolfo Porry-Pastorel (1888-1960) è considerato il padre del fotogiornalismo italiano. Negli anni Dieci fondò l’agenzia fotografica V.E.D.O. (Visioni Editoriali Diffuse Ovunque) e divenne in breve tempo il principale fotografo di cronaca e attualità del Paese. Durante il regime fascista fu noto come “il fotografo di Mussolini”. Questa posizione, che gli garantì un accesso esclusivo alle stanze del potere, la seppe gestire con uno sguardo personale, non privo di spirito critico. La sua indipendenza finì per attirare l’attenzione della censura fascista.
Nel dopoguerra, Pastorel si ritirò a Castel San Pietro Romano, dove ricoprì la carica di sindaco dal 1952 fino alla morte nel 1960, stabilendo un legame profondo con il territorio che ancora oggi lo celebra.
Pino De Matti vanta una lunga e importante attività professionale. Formatosi presso lo studio di arti sceniche “Alessandro Fersen” a Roma, ha costruito una carriera che attraversa teatro, cinema e televisione. Debutta giovanissimo, a soli ventitré anni, al Teatro Stabile dell’Aquila con “La passione di Cristo” per la regia di Antonio Calenda. In questa produzione interpreta Gesù accanto a Elsa Merlini e a Pupella Maggio. Ha lavorato con registi come Federico Fellini, Giovanni Soldati, Florestano Vancini, Luigi Perrelli, Robert Dornhelm, Jose Maria Sanchez, Vittorio De Sisti e molti altri. Ha preso parte a importanti produzioni televisive, tra cui “La piovra” (1984), “Il giudice istruttore” (1990) e, più di recente, “Exodus”, “K2” (2012) e “Don Zeno”.

Pino De Matti nel ruolo di Adolfo Porry-Pastorel durante le riprese di “Dovere Civile”. (ph: autore)
Nel suo percorso ha ricoperto spesso ruoli che sostengono la struttura del racconto, più che occupare il centro della scena. Come definirebbe il contributo degli attori “di carattere” alla credibilità di un film o di uno spettacolo?
Nella mia carriera mi è capitato spesso di interpretare ruoli di carattere, personaggi che non stanno al centro della scena, ma che sono determinanti per la tenuta del racconto. Sono figure di connessione, che danno profondità e continuità alla storia. Penso, ad esempio, al ruolo di Don Leandro in “Exodus”, con Monica Guerritore, per la regia di Gianluigi Calderone. In quel lavoro la Guerritore interpreta Ada Sereni e Don Leandro è colui che testimonia il suo legame con il marito Enzo Sereni, raccontando di averlo incontrato nel carcere di Verona. Sono poche scene, poche pose, ma fondamentali. Senza quel personaggio mancherebbe un tassello emotivo e narrativo essenziale. Ecco, i ruoli di carattere spesso operano così. Non fanno rumore, ma tengono insieme la storia.
Porry-Pastorel era un fotografo che documentava il potere senza cercare di diventarne protagonista. C’è qualcosa di questa posizione, essere presenti senza essere al centro, che riconosce nel suo modo di attraversare il mestiere dell’attore?
Sì, credo che in Porry ci sia molto di “attoriale”. È una figura determinante, un protagonista silenzioso, ma assoluto. È stato un uomo coraggioso e anche, diciamolo, un visionario. Ha sfidato il Duce, pur muovendosi in un equilibrio sottile, tollerato, ma mai davvero sottomesso. Per un attore, interpretarlo significa confrontarsi con una presenza che non ha bisogno di imporsi per essere centrale. È un personaggio che agisce dall’interno, che influenza la realtà senza mettersi in vetrina. Quando si interpreta un ruolo così, la domanda è sempre “sotto quale luce lo facciamo brillare”? Bisogna raccontare il contesto, le ombre, le scelte, le esitazioni. Porry-Pastorel era un visionario che sapeva stare dentro le cose senza dichiararsi protagonista. Per un attore, questo è già moltissimo, significa lavorare sulla misura, sulla profondità, sulla verità dei piccoli gesti.
Si è formato con Alessandro Fersen, in una scuola che concepiva l’attore come artigiano del corpo e della presenza scenica. Quali aspetti di quel metodo orientano ancora oggi il suo modo di preparare un ruolo?
Alessandro Fersen è stato il mio maestro. Quello che mi colpiva del suo modo di lavorare era l’attenzione all’unicità dell’attore. Ognuno portava con sé una storia, un corpo, una memoria e lui partiva da lì. Non si trattava di applicare una tecnica uguale per tutti, ma di scavare dentro l’immedesimazione, nel subconscio, nelle risonanze personali che rendono un personaggio vivo.
Era un lavoro profondo, quasi antropologico, in cui il corpo è lo strumento principale. Da lui ho imparato che l’attore non “interpreta” soltanto, ma “trasforma” qualcosa di sé per far emergere il personaggio. In questo senso il suo insegnamento è vicino, per certi aspetti, al metodo Stanislavskij e all’Actors Studio americano, la verità nasce dall’interno, non dalla superficie. È un approccio che porto ancora con me, ogni volta che preparo un ruolo.
Ha lavorato in contesti molto diversi. Grandi produzioni televisive, teatro stabile, tournée, progetti indipendenti come quest’ultimo cortometraggio. In quale di questi ambienti ha sentito di poter lavorare con maggiore libertà?
Ho lavorato spesso in Rai e ho avuto la fortuna di far parte di grandi produzioni, ma la mia vera formazione è avvenuta a teatro. Il mio debutto allo Stabile dell’Aquila, nel ruolo del Cristo ne “La passione di Cristo”, diretta da Antonio Calenda, è stato per me un passaggio fondamentale. Quello spettacolo ci portò in tournée fino in Australia, e poi di nuovo in Italia, con Pupella Maggio nel ruolo della Madonna. Con lei era impossibile non tremare, era una presenza scenica immensa. Ma aveva un grande dono, sapeva metterti a tuo agio. Da lei ho imparato cosa significa stare in scena.
La libertà più grande l’ho sentita proprio in questi contesti dove il lavoro nasce lentamente, giorno dopo giorno, in relazione con gli altri attori. Il cinema e la televisione hanno i loro tempi e le loro necessità, ma il teatro ti permette di costruire un personaggio partendo dal respiro, dallo sguardo, dalla relazione viva con chi ti sta accanto. Il cortometraggio su Porry-Pastorel è un’altra esperienza ancora più intima, più concentrata. È arrivato in un momento della mia maturità in cui posso permettermi di entrare in un ruolo portandoci anche tutto ciò che ho vissuto. È una libertà diversa, forse più interiore.

Pino De Matti, “Il protagonista non è chi sta sotto i riflettori, ma chi sa dare peso alle cose”. (ph: autore)
Nel suo percorso ha incontrato attori, tecnici, maestranze che sono state decisive per il successo di un’opera pur restando fuori dai riflettori. Ricorda un episodio in cui questo tipo di contributo è stato determinante?
In Italia le maestranze sono spesso grandi professionisti. Sono loro che risolvono gli imprevisti, perché ogni set ha il suo imprevisto, e lo fanno con un’abilità che definirei artigianale. Con due assi e un pezzo di stoffa sono in grado di ricostruire il mondo. Questo vale anche per gli attori seri, quelli che portano il proprio mestiere senza cercare la ribalta. Ricordo quando lavorai con Federico Fellini. Lui arrivava sul set e, semplicemente, riscriveva il film mentre lo girava. Magari nel tragitto da Piazza di Spagna a Cinecittà gli veniva un’idea e la scena cambiava all’istante. In quei momenti, le maestranze erano decisive, capivano al volo, traducevano quell’intuizione in realtà. Senza clamore, senza riflettori.
L’attore, in quei contesti, deve imparare a essere un contenitore vuoto, come un secchio si riempie di ciò che serve in quel momento. Ma perché questo accada, ci vuole qualcuno che sappia reggere la scena attorno a te. Ed è lì che si vede la grandezza degli invisibili.
La continuità del lavoro e il riconoscimento pubblico non sempre coincidono. Quando ha sentito che il suo mestiere veniva davvero riconosciuto, al di là della visibilità?
Il lavoro dell’attore non è semplice, tutt’altro. Perché il successo non dipende solo dalla qualità dell’interpretazione. Entrano in gioco mille fattori, spesso fuori dal controllo di chi recita. Pensiamo al cinema indipendente. Ci sono film bellissimi, realizzati con risorse minime, che però non arrivano al pubblico perché manca la distribuzione. E senza distribuzione, non esisti.
Dopo il mio debutto teatrale, che andò bene, cercavo visibilità non per vanità, ma per necessità. Come si dice, bisogna pur mettere insieme il pranzo con la cena. Ricordo mia madre che mi diceva “Con tutto lo studio che fai sui testi teatrali e le sceneggiature avresti potuto prendere tre lauree e, invece, non ne hai neanche una”. Ma quella era la mia strada, non avevo alternative. Era un bisogno, quasi fisico. Ecco perché tengo in modo particolare a questo cortometraggio. Nasce da una comunità viva, partecipe. Castel San Pietro Romano ha una lunga storia con il cinema. Basta un fischio e la gente è pronta. Succedeva negli anni del neorealismo e succede ancora oggi. È una piccola Cinecittà, con una memoria collettiva della scena. In questo contesto, il sindaco Giampaolo Nardi ha avuto una visione, direi quasi “alla Pastorel”, saper guardare oltre il muro. Prendersi cura della propria comunità, ascoltare i desideri, le fatiche, le aspirazioni delle persone. Per me, questo è il vero riconoscimento. Non la notorietà, ma sentire che chi ti sta vicino comprende il tuo lavoro e lo considera parte viva della comunità. Castello è cinema. Viva Castello!















Divertente… lascialo dove e’!!!