A Matera mostra pitto-fotografica di Pica e D’Imperio

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 Oggi 13 luglio 2022 alle ore 20.00 a Matera presso la “Storica casa-grotta di Vico Solitario” a Piazza San Pietro Caveoso, lo scrittore e critico d’arte Enzo Varricchio, penna storica di Il Corriere Nazionale,  presenterà la mostra pitto-fotografica di Giorgio Pica e Nicola D’Imperio intitolata “La magia di Matera e del suo territorio”, nonché l’omonimo volume a essa dedicato.

Pubblichiamo in anteprima la prefazione al volume.

“FOTOGRAFARE LA MAGIA”

di Enzo Varricchio 

Pittura e fotografia convivono da sempre nell’arte di Giorgio Pica ma stavolta la fotografia, figlia illegittima della pittura, gareggia col talento visionario di Nicola D’Imperio, noto paesaggista, in una serie immaginifica di opere dedicate alla Lucania e al suo epicentro culturale: Matera. Mathera mater, città di pietra, è un match permanente tra l’uomo e la natura. L’uomo la sovrasta nella miracolosa ingegneria dei sassi ma la gran madre sa prendersi la rivincita con l’immoto scrutare del gheppio sul Vallone della Loe, col gorgogliare negli anfratti rocciosi del Bradano che s’infrange sulla diga del Lago di san Giuliano. Qui la parola troglodita è tutt’altro che un insulto. Gli antichissimi abitanti delle rupi sapevano tutto della bioarchitettura. Nel morbido tufo scavavano canali e cisterne, costruivano giardini pensili, concepivano spazi comuni da condividere coi vicini, seppellivano i morti sui tetti delle case petrose perché questi, intercapedini spirituali tra il cielo e la terra, vegliassero sulle loro teste, piuttosto che essere calpestati dai loro piedi come nelle antiche chiese e nei moderni cimiteri. Altro che Feng Shui.

Di questo mirabile incontro tra storia e natura si fa interprete l’occhio umano, si fa emula l’arte pittorica di Nicola D’Imperio, scavando a mani nude tra gli anfratti rocciosi, le case abbarbicate e le cromie mutevoli dei campi; le risponde l’obiettivo di Pica, lesto a cogliere le geometrie impossibili che il pennello lascia alla fantasia e a farne materia di una memoria che di solito la fotografia premette al gesto pittorico e che invece, in questo muto gareggiare, scolpisce il ricordo come l’orma il cammino. In questo lirico amplesso, la fotografia è luce e la pittura ombra, l’una realismo, l’altra astrazione, l’ottica è scienza, la pittura invenzione, entrambe poesia di luoghi che da sempre invocano racconti. Ci sono infatti paesaggi come la Lucania, che chiedono di essere raccontati, che reclamano a gran voce una storia, paesaggi che sono essi stessi protagonisti delle loro storie e le persone che vi appaiono semplici comparse. Come la solinga Craco, rimangono ignoti e dimenticati per anni, talora per secoli, in attesa dei loro cantori. Chi ricorderebbe l’antica Troia senza Omero, chi i colli euganei senza Foscolo, chi il periglioso Borneo senza Salgari? Nel medesimo senso ma in chiave artistico-visiva, la Lucania di Pica non è mai mera iconografia ma dunque epopea, non documento ma narrazione, mediata beninteso dalla tecnica sopraffina.

Nella mia prefazione a “ROSA MARINA”, volume fotografico pichiano del 2019, in cui persino il famoso villaggio vacanze salentino diveniva metafora di un percorso esistenziale, scrivevo: “Pica non è un fotografo d’occasione ma uno studioso di ottica che conosce alla perfezione i segreti della luce. Le foto non sono ritoccate al computer, le immagini sono no-filter, “naturali” nel senso di modellate con la scelta dei tempi di esposizione e con l’apertura maggiore o minore del diaframma, insomma sanno di vintage come il suono sporco di un vinile musicale. E solo la paziente e saggia attesa di un paesaggista può prevedere e carpire gli effetti della luce. I paesaggi di Pica prima di essere fotografici sono pittorici e, nella loro evoluzione, sono divenuti sempre più astratti. Il fotografo va in direzione solo apparentemente opposta a quella del pittore. Con l’arte della reflex, Pica torna al realismo, tuttavia concettualizzato, quindi filosofico anch’esso”. Al contempo, a parte la padronanza assoluta del mezzo, per Pica come per D’Imperio, le immagini sono il non detto, il silenzioso e malinconico scorrere delle albe e dei tramonti, il senso nascosto delle umane cose che un luogo “normalmente magico” come Matera è capace di raccontare.

Ecco perché gli agri granofori di Pica e D’Imperio si animano dello stesso dinamismo retinico, perché i Sassi di Pica sono pittorici quanto quelli di D’Imperio sono fotografici, perché per entrambi calanchi e doline non sono solo profondi solchi scavati dalle piogge nel terreno lungo il fianco di un monte o di una collina, quanto dilavamenti della storia del popolo lucano e nelle coscienze degli individui: il mero dato oggettuale si trasfigura nel sentimento dello scorrere del tempo e della caducità delle umane cose. Proprio per questo, per voluto contrasto, la figura umana è totalmente assente nelle opere pichiane, a sottolineare la progressiva reificazione consumistica dell’antropologia odierna. Dalla figurazione mimetica all’impegno diegetico, insomma, il passo è breve per un artista dotato delle cultura e della sensibilità profondamente umanistiche di Pica, sicché il presente volume risulta un fondamentale antidoto all’oleografia turistico-commerciale della Matera post città della cultura, che subdolamente minaccia la sua millenaria e composta autenticità, rischiando di compromettere il senso intimo di una città che ha fatto del precario equilibrio tra uomo e natura la sua cifra fondamentale, una indecifrabile magia che la rende unica su questo pianeta.

Sono certo che, sfogliandolo tra qualche decennio, in disparte all’estrema gradevolezza estetica, ritroveremo intatto in queste opere di Giorgio Pica il valore assoluto di testimonianza di un’era di passaggio quale la nostra, secondo l’insegnamento di Primo Levi, per cui l’arte assume anche tale civica funzione”.  

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