Abusi sulle persone detenute, da Beccaria a Zimbardo

Femminicidi & Violenza

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“Il più sicuro ma più difficil mezzo di prevenire i delitti si è di perfezionare l’educazione”. Già nel Settecento il giurista Cesare Beccaria aveva intuito dove bisognava puntare per sradicare il male dalla società.

Si sono posti sulla sua stessa scia i nostri padri costituenti, infatti l’articolo 27, comma 3 della Costituzione italiana recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

Dunque le punizioni non devono mortificare la dignità umana, e non sono nemmeno ammesse forme di tortura. Fa da eco all’articolo 3 della Costituzione, l’articolo 3 del CEDU, ossia della Convenzione europea dei diritti dell’uomo nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in esso si legge che “nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.

Eppure ad oggi si leggono e/o si ascoltano fatti di cronaca che rivelano tutt’altro: comportamenti inadeguati e violenti che vengono agiti contro le persone detenute.

Una manifestazione comportamentale fortunatamente non abituale ma esistente e che verosimilmente può essere spiegata attraverso il concetto di deumanizzazione del prigioniero.

Ė necessario, però, bussare alla porta di alcuni psicologi affinché con il loro acume ci aiutino a comprendere tale fenomeno.

Lo psicologo canadese Albert Bandura prova a spiegare la deumanizzazione attraverso la teoria del disimpegno morale, ossia quel processo mentale attraverso cui coloro che hanno violato una norma provano in vari modi a ridimensionare o addirittura a giustificare l’azione trasgressiva commessa.

Ė da sottolineare la difficoltà di assunzione di responsabilità del proprio agito da parte dell’attore. Il concetto di deumanizzazione, dunque, è la negazione dell’umanità altrui, pertanto il carnefice per evitare di provare senso di colpa reinterpreta il suo comportamento, e nega l’umanità della sua vittima.

Un esempio eclatante di disimpegno morale lo ha sperimentato Primo Levi: “Parte del nostro esistere ha sede nelle anime di chi ci accosta: ecco perché è non umana l’esperienza di chi ha vissuto giorni in cui l’uomo è stato una cosa agli occhi dell’uomo”.

Lo psicologo statunitense Philip George Zimbardo avviò un esperimento di prigionia simulata noto come Effetto Lucifero. Evidente l’analogia tra il risultato dell’esperimento e la storia di Lucifero, ossia il portatore di luce, un angelo meraviglioso e splendente precipitato negli abissi per essersi voluto porre al di sopra di Dio.

Tutto ha avuto inizio presso il Dipartimento di Psicologia dell’università di Standford in California, all’esperimento hanno preso parte 24 persone, scelte in modo accurato, ossia stabili psicologicamente, non drogati, e senza precedenti penali.

Per due settimane i 24 prescelti sono stati divisi in 2 gruppi: 12 prigionieri e 12 guardie, e roba da non credere questi ultimi hanno finito per sviluppare comportamenti violenti nei confronti dei finti carcerati.

Le guardie sono precipitate nell’abisso del male proprio come Lucifero.

Cosa ha voluto dimostrare Zimbardo attraverso l’esperimento condotto? Fondamentalmente due cose: negare l’umanità dell’altro è un pericolo che è sempre dietro l’angolo, e il comportamento abusante ha diverse possibilità di venire condizionato dall’ambiente lavorativo.

PF.M.

tags: Cesare Beccaria, detenuti, formazione, istruzione

Redazione Corriere Nazionale

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