Alienazione ed autoalienazione

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Il termine “alienazione” può essere inteso in senso lato come la crisi del rapporto dell’uomo con la realtà, e perciò è una costante umana, anche se come ha intuito Marx è stata accentuata molto dalla società capitalistica, che ha parcellizzato, frammentato, standardizzato il lavoro, rendendolo estraneo all’uomo.

E la coscienza del lavoratore avverte la crisi del rapporto con il proprio operato e con gli artefatti prodotti. L’alienazione secondo Marx deriva dal fatto che i prodotti diventano potenze indipendenti rispetto al lavoratore, dato che quest’ultimo è estraneo all’intera attività produttiva ed all’intera fase del processo di fabbricazione dell’utensile; allo stesso tempo tramite il plusvalore gli viene sottratta parte della ricchezza, che lui stesso aveva creato.

Per capire adeguatamente il concetto di alienazione di Marx bisogna ricordare che questo non acquisisce mai né un carattere materialista, né idealista: piuttosto va colto nella sua dimensione sociale ed economica. Inoltre bisogna ricordare che la parcellizzazione del lavoro ed il plusvalore, scaturiscono a loro volta dal macchinismo e dalla divisione del lavoro.

Per Marx sono le macchine che riducono l’uomo a macchina e i prodotti creati possiedono l’uomo, piuttosto che essere posseduti dall’uomo. Il filosofo invece vorrebbe che il lavoro umano autorealizzasse l’individuo, lo relazionasse alla sua vera essenza di uomo, gli permettesse di sprigionare sana energia psichica e fisica, liberasse i suoi impulsi creativi.

Ma il lavoratore è alienato e si rende conto che gli atti nell’ambiente di lavoro sono meccanici, rituali, ripetitivi e quindi si sente degradato a cosa. Marx nei “Manoscritti economico-filosofici” scrive che tramite l’alienazione “ciò che è animale diventa umano, e ciò che è umano diventa animale”.

Ma l’uomo appunto non è una cosa, l’uomo non è un animale. L’uomo per ogni gesto che compie è sempre “circondato da se stesso”, dalla propria interiorità e dalla propria attività psichica. Il concetto di alienazione intesa nel senso di “oggettivazione” è stato elaborato filosoficamente per primo da Hegel ne “La fenomenologia dello spirito”. Hegel chiamò alienazione la fase in cui la coscienza diviene oggetto a se medesima. Marx da questo punto di vista è in debito con Hegel, perché senza la scissione hegeliana della coscienza Marx non avrebbe potuto sviluppare il suo concetto di alienazione. 

Ritengo che per capire pienamente il concetto di alienazione bisogna riportare un passo di Schiller del 1795, anche se il filosofo non parla mai espressamente di alienazione: “ Eternamente legato solo ad un piccolo frammento e non avendo mai altro nell’orecchio che il monotono rumore della ruota che egli gira, non sviluppa mai l’armonia del suo essere, e invece di esprimere nella sua natura l’umanità, diventa soltanto una copia della sua occupazione, della sua scienza”. Ho riportato questo passo perché a mio avviso non esiste solo l’alienazione marxiana, a tutti nota, ma anche un’alienazione che deriva da noi stessi e che per semplificare le cose chiamerò autoalienazione.

E questa autoalienazione è nata quando è nato l’uomo e morirà con l’ultimo uomo. Va ricordato che anche la vita quotidiana extralavorativa è spesso automatica, distratta, ripetitiva. L’uomo spesso è come un sonnambulo, che non sa di ripetere ogni giorno inconsapevolmente gesti già compiuti in molte altre situazioni (o almeno non ci fa caso). Molto spesso nella vita lavorativa, ma anche nel tempo libero mancano quindi elementi concreti di connessione tra gli elementi frammentati dell’esperienza sensibile, che diano unità alla coscienza.

Nell’insieme delle azioni quotidiane esiste una meccanicità della ripetizione, che porta l’uomo ad essere un automa inerte, che sottostà alla prassi. Anche la quotidianità causa perciò “immobilismo psichico”. Non è soltanto la società moderna ed i modi di produzione della società industriale che alienano l’uomo, ma è l’uomo stesso che spesso si autoaliena con i suoi schemi abitudinari di vita.

I lavoratori sono alienati e i disoccupati soffrono di autoalienazione, di quel che gli psicologi chiamano oggi stress da sotto-attivazione. Ma per fermare questa sorta di auto-alienazione come fare? Gli esistenzialisti proponevano una via d’uscita a questo circolo vizioso: pensavano che la quotidianità alienata fosse un pericolo per l’iniziativa individuale e che di conseguenza l’individuo per scegliere davvero, dovesse fare di volta in volta ciò che sente veramente suo, cioè dovesse lasciare la propria impronta personale in ogni atto compiuto.

Già precedentemente Montaigne riteneva che il compito nuovo della filosofia “era di insegnare ad inventare gli eventi della propria giornata”. Affinchè la coscienza non si assenti e non si oggettivizzi l’uomo quindi deve inventarsi l’euristica del proprio vivere giornaliero, cioè deve compiere nuove azioni rispetto al passato ed anche le azioni più comuni nel meno consueto possibile. La vita alienata è costituita da un insieme di atti non intenzionali, talmente usuali che non raggiungono spesso la soglia di coscienza.

C’è forse una ragione a tutta questa auto-alienazione? Ne “L’antropologia” Kant teorizza che l’uomo si immerga nelle azioni consuete perché questa sorta di giogo esistenziale gli libera la mente dalla paura della morte. Il paradosso allora che si innesca in questo meccanismo è: se il senso della vita è dato da come vive l’uomo ogni giornata, come può liberarsi dal timore ossessivo della morte ed al contempo redimersi da questa ripetitività, che causa assenza?

Davide Morelli

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