Berrettini, Gaudenzi e gli altri: breve storia dei ritiri per infortunio  

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L’immagine plastica è quella di Matteo che nella prima giornata delle Atp Finals a Torino tenta uno stretching alzando il braccio, si tocca il fianco nello stesso punto in cui si infortunò a febbraio in Australia, prova a rigiocare e viene piegato dal dolore

© Marco BERTORELLO / AFP 
– Matteo Berrettini

C’è una linea sottile che separa, nel tennis, l’infortunio spettacolare da quello reale. Il crac spettacolare è il capitombolo, la scivolata finita male, il nastro beffardo che convoglia la pallina verso il tuo occhio. L’immagine plastica dell’infortunio reale è quella di Matteo Berrettini che al suo esordio contro Zverev nella prima giornata di gioco delle Atp Finals a Torino, ieri sera, tenta uno stretching alzando il braccio, si tocca il fianco nello stesso punto in cui si infortunò a febbraio in Australia, prova a rigiocare e viene piegato dal dolore.

Nessuna concessione allo show: è dolore puro. Ai più il crac di Matteo agli addominali ha riportato alla mente quello di Andrea Gaudenzi, attuale presidente di Atp, nel dicembre ’98. Finale di Davis Italia-Svezia al Forum di Assago, un match che portava i fans a sognare la fine del lungo periodo di carestia di vittorie nel tennis italiano. Dopo 4 ore e 40 di gioco e dopo aver recuperato un cospicuo svantaggio del quinto set, Andrea, contro Magnus Norman, tirò un dritto e si fermò. Spalla ko, quella stessa spalla che tanti problemi gli aveva dato in precedenza. Provò a rigiocare qualche punto ma si dovette arrendere. La finale si concluse lì: una speranza enorme che scivolò nel nulla nel giro di un secondo.

Per restare nei confini del tennis italiano qualcosa di simile provò Sara Errani nel 2014 quando approdò alla finale degli Internazionali d’Italia trovando Serena Williams. L’occasione della vita si rivedere un tennista italiano che vince a Roma. Ma complice la fatica del turni precedenti e pure la tensione derivante dal carico di responsabilità, Sara si infortunò alla coscia sul finire del primo set. Per onor di firma restò stoicamente in campo conquistando solo qualche punto qua e là e nemmeno più un game. Il 6-3 6-0 fu una pietra tombale, pure in questo caso, su una grande speranza.

Il tennis è cambiato dai tempi gloriosi dei gesti bianchi. Un tempo ci si infortunava (meno) anche perché i carichi di allenamento non erano certo quelli cui si è sottoposto Matteo Berrettini per costruirsi il fisico che lo ha portato ed entrare stabilmente fra i primi dieci giocatori al mondo.

Non aveva un fisico del genere Tom Gorman quando nel ’72, al Masters, si ritirò sul match point a proprio favore contro Stan Smith. Si era infortunato alla schiena qualche minuto prima. Se avesse vinto non avrebbe potuto comunque giocare la finale contro Nastase: lasciò campo aperto all’ americano.

Non era un nostro di fisicità nemmeno Billie Jean King, probabilmente il personaggio più straordinario della storia del tennis (39 titoli dello Slam) quando agli Us Open del 1973 si ritirò contro Julie Heldman (figlia di quella Gladys che ebbe un ruolo fondamentale nella battaglia per i pari diritti del tenniste) rischiando seriamente di svenire in campo a causa di un febbrone da cavallo. Mentre Billie quasi agonizzava a bordo campo la sua giovane avversaria saltellando chiese al giudice arbitro: “Il minuto di interruzione è finito. Giochiamo o sospendi?” al che Billie la guardò e sussurrò: “Ci tieni alla partita? Prenditela” e filò sotto la doccia.

In tempi più recenti, uno che ha una certa confidenza con i ritiri è Andy Murray. E non solo perché già una volta si è ritirato in via definitiva dall’attività a causa dell’anca malconcia. A Montecarlo nel 2012 fu testimone di una delle cadute in campo più dolorose della storia: dall’altra parte della rete c’era Julian Benneteau che si schiantò a terra a causa di una caviglia distorta in modo in modo innaturale e cadendo si infortunò anche al polso. Un vero e proprio ko pugilistico.

Quattro anni dopo al Queens toccò ad Andy rendersi protagonista di una sorta di via crucis in campo contro Thomas Johansson. Prima rovinò a terra causa caviglia, poi si trascinò per il campo a crollò una seconda volta a causa del dolore alla gamba destra. Concluse il match ma in condizioni di precarietà tali da ricordare l’arrivo al traguardo della maratoneta svizzera Gabriela Scheiss-Andersen ai Giochi di Los Angeles in preda ad una violenta crisi di disitratazione: dinoccolato, con il corpo completamente dolorante.

E poi c’è il padre di tutti gli infortuni in campo. Che avrebbe potuto costare, a chi ne è stato vittima, non solo un lungo stop agonistico ma pure la qualità di tutta la vita futura. Lui è l’americano James Blake che nel 2014 si stava allenando al Foro Italico. Scivolando per raggiungere una pallina cozzò violentemente contro uno dei due paletti che reggono la rete e, in sostanza, si ruppe l’osso del collo rischiando di trascorrere il resto della sua esistenza su una sedia a rotelle. Riuscì a riprendersi non prima di aver contratto, anche a causa dei postumi di quell’infortunio, una grave forma di herpes zooster. Tornò a giocare (vinse anche la Davis nel 2007), riprese a studiare e rientrò nel tennis: oggi è direttore del 1000 di Miami, torneo del quale ha curato la rinascita.

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