Cento anni fa con il “Natale di sangue” si concludeva l’impresa di D’annunzio a Fiume

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D’Annunzio a Fiume   –   Diritti d’autore  Public domain
 

E fu “Natale di sangue”, proprio cento anni fa quando Gabriele D’annunzio e i suoi legionari vennero sloggiati da Fiume dopo un carnevale di ultra-nazionalismo, provocazione ed estetica d’avanguardia durato sedici mesi. Nel Settembre del 1919 il Vate si inserì con un paio di migliaia di reduci delle trincee della prima guerra mondiale (alcuni di essi tra i più temerari) nella partita a scacchi per la spartizione di Dalmazia e Istria tra il giovane Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (piû tardi “di Jugoslavia”) e l’Italia liberale, anch’essa coronata.

D’Annunzio voleva forzare la mano alla grande diplomazia per dare all’Italia ciò che i trattati non le avrebbero formalmente assegnato: la città di Fiume, con il Golfo del Quarnaro, o Carnaro.

La spinta nazionalista era incontenibile, almeno quanto la confusione politica del primo dopo-guerra.

C’era chi tramava: i nazionalisti e la galassia Mussolini (con i Fasci di Combattimento e il quotidiano Il Popolo d’Italia) volevano la rivolta italofila nella città, in realtà autonoma fin dai tempi dell’Austria-Ungheria.

Dopo la sbornia dell’affermazione bellica, la retorica dolente della “vittoria mutilata” accompagnava l’hang-over dei reduci e dei disoccupati, agli occhi di borghesi impauriti, prede facili del bolscevismo.

Più che “mutilata” insomma sembrava, a quelle masse che “avevano fatto irruzione nella storia”, una vittoria di Pirro dai costi umani insopportabili.

 

Lo Stato liberale e la Corona temevano dunque nuovi avventurismi dalle conseguenze incontrollabili. Il rischio c’era, infatti in Anatolia, sul Baltico e in Russia altri Paesi combattevano ancora per ragioni analoghe. Nessuno voleva grattacapi nell’Adriatico, men che meno Roma e Belgrado.

Il nuovo Regno degli slavi meridionali era una delle realtà del nuovo ordine internazionale, nato sulle ceneri di ben quattro imperi. Bisognava quindi ottenere i risultati desiderati con la diplomazia, come avevano lasciato intendere i grandi vincitori (anch’essi stremati) del conflitto, Gran Bretagna e Francia, assieme al nuovo attore delle relazioni internazionali (quasi un alieno) gli USA di Wilson che -in virtù di un internazionalismo liberale in fasce- proponeva la creazione della Società delle Nazioni, brodo di coltura della Nazioni Unite: introduceva un concetto del tutto nuovo e all’epoca intraducibile, “l’autodeterminazione dei popoli”.

E proprio questa novità imponeva “sacrifici” a quei Paesi vincitori che avevano ricevuto promesse territoriali. L’Italia voleva riscuotere le offerte che le erano state fatte qualche anno prima in cambio della sua entrata in guerra.

Nessuno aveva pensato che Venezia Giulia, Istria e Dalmazia fossero terre multietniche da sempre.

La diplomazia ama lo struscio, mentre la poesia corre. E come! Così la Questione fiumana fu rapita dal Vate e dai suoi versi, modulabili tra l’antico e il moderno, a seconda della platea e della necessità.

Marketing di piuma, calamaio e pugnale. Roba forte per le classi dirigenti (o dominanti) liberali, ma democratiche con difficoltà.

D’Annunzio fu il più svelto. Risoluto. Una beffa da esteta che s’accompagna alla truppa.

Una città come Fiume, che con un sofismo odierno definiremmo “multikulti” con italiani, croati, ungheresi, austro-tedeschi e altri, offriva il terreno ideale per chi cercava l’impresa in armi, ossia la rissa, se non addiritura le rogne.

Iniziò come una crociata, nel settembre del 1919, con Gabriele D’Annunzio in marcia che raccoglieva volontari tra arditi (oggi li chiameremmo le forze speciali) nazionalisti-rivoluzionari, futuristi, dadaisti, sindacalisti e qualche bolscevico affetto da “strabismo politico”. Vi partecipò, più o meno intensamente, una buona parte dell’intellighenzia d’avanguardia dell’epoca: Marinetti, Keller, Comisso. Ci fu anche lo scrittore giapponese (e samurai) Harukichi Simoi.

Tutti vagheggiavano una rivoluzione dalle caratteristiche confuse, alcuni pensavano addiritura a Lenin, ma Fiume divenne una dionisocrazia assediata dall’esercito italiano.

Volevano abbattere le convenzioni borghesi dell’Italietta liberale partendo da quel porto incastonato tra la Dalmazia e l’Istria, ma soprattutto affermare il principio di nazionalità italiana ai danni di quella slava del sud.

Divenne un carnevale di sesso libero, goliardia, droghe e violenza. La popolazione slava subì in quei giorni vessazioni e discriminazioni.

Una prova generale di fascismo che Mussolini seppe sfruttare abilmente.

Formule come “Reggenza del Carnaro“, “Carta del Carnaro“, nudismo, yoga e altre pratiche che nel ’68 si popolarizzarono finirono sotto le cannonante dell’artiglieria navale di Sua Maestà tra il 24 e il 29 dicembre del 1920, eccetto la tregua natalizia del 25. Si arresero il 31. Italiani contro Italiani in una Kronstadt adriatica in anticipo, meno tragica, ma dolorosa. Perì infatti una cinquantina di persone, tra civili e legionari. Poi, due anni dopo, la lotteria politica mise in palio Benito Mussolini. Altra avventura, altri masnadieri. Finì molto peggio.

Abbiamo intervistato in proposito lo storico triestino, esperto di confine orientale, Raoul Pupo, autore di numerosi saggi tra cui, nel 2018, Fiume, città di passione. 

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