Colpo di stato in Mali

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Dopo mesi di proteste, il presidente del Mali è stato arrestato dai suoi soldati e si è dimesso. Ma il paese resta diviso, e sotto la minaccia costante dei jihadisti. L’Europa guarda con apprensione ai nuovi sviluppi in Sahel.

Martedì c’è stato un nuovo colpo di stato in Mali: il presidente Ibrahim Boubacar Keïta si è dimesso dopo essere stato arrestato da un gruppo di soldati in rivolta. “Non voglio che venga versato del sangue per mantenermi al potere”, ha dichiarato Keïta in un discorso televisivo, annunciando che avrebbe fatto dimettere il governo e sciolto il parlamento. Il Presidente è poi stato condotto in un accampamento militare assieme al suo Primo ministro, Boubou Cissé.

Nel frattempo i soldati ribelli si sono autoproclamati “Comitato nazionale per la salvezza del popolo” e uno dei loro leader, il vice capo di stato maggiore dell’aeronautica, ha chiesto una “transizione politica civile che conduca a elezioni generali credibili”. I militari hanno poi dichiarato chiusi tutti i confini terrestri e aerei e imposto un coprifuoco dalle 9 alle 17. Non è ancora chiaro se i golpisti intendano riconsegnare rapidamente il potere nelle mani di un nuovo governo civile, o continuare a governare il paese quantomeno fino a eventuali elezioni future.

Come siamo arrivati alla deposizione di Keïta?

Dopo il colpo di stato del marzo 2012, che aveva portato alla rapida perdita del nord del paese alle forze tuareg secessioniste (e, di lì a poco, ai jihadisti), la giunta militare aveva rapidamente lasciato il potere a un governo civile transitorio. Anche questo governo civile era stato tuttavia deposto dai militari a dicembre dello stesso anno.

Keïta, oggi settantacinquenne e già Primo ministro del Mali tra il 1994 e il 2000, era stato eletto presidente nel 2013 tra grandi speranze, in particolare grazie alla sua notevole popolarità tra i giovani. Il presidente si era assicurato un secondo mandato nel 2018, sconfiggendo al secondo turno Soumaila Cissé. Alle elezioni parlamentari di marzo 2020 il partito del Presidente aveva guadagnato una maggioranza relativa dei voti ma Cissé, in quel momento leader dell’opposizione, era stato rapito a tre giorni dal voto, scatenando proteste verso il governo, colpevole di non riuscire a garantire la sicurezza neppure a importanti esponenti politici. A fine aprile, poi, la Corte costituzionale maliana aveva ribaltato i risultati elettorali per 31 seggi parlamentari, favorendo il partito di Keïta ma aprendo la strada ad accuse di brogli e corruzione.

Accuse e sospetti avevano convinto decine di migliaia di persone a scendere in piazza il 5 giugno, e il proseguire delle proteste ha costretto lo stesso Keïta ad annunciare lo scioglimento della corte costituzionale. Nelle ultime settimane si sono tenute numerose proteste nel paese, con i manifestanti che chiedevano a gran voce le dimissioni del presidente. Oltre all’accusa di aver “rubato” le elezioni di marzo, le proteste contro il presidente degli ultimi mesi si sono concentrate sui problemi di corruzione, sulla cattiva gestione dell’economia (le conseguenze della pandemia di COVID-19 potrebbero spingere il paese in recessione) e sull’incapacità del governo di porre un efficace freno all’insurrezione jihadista nelle zone settentrionali e centrali del paese.

Come ha reagito la comunità internazionale?

Oggi il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite terrà una sessione a porte chiuse per discutere del colpo di stato in Mali. L’incontro è stato richiesto dalla Francia, membro permanente, e il Niger, membro a rotazione del Consiglio. Nel frattempo il Segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha chiesto il rilascio senza condizioni del presidente Keïta e il ripristino immediato dell’ordine costituzionale e dello stato di diritto.

A stretto giro, il colpo di stato è stato condannato anche dalle più importanti organizzazioni internazionali africane, come l’Unione africana e l’ECOWAS, così come dall’Unione europea per mezzo del suo Alto rappresentante per gli affari esteri, Josep Borrell. Oltre a ciò, i membri dell’ECOWAS hanno deciso di sospendere il Mali dall’organizzazione, di chiudere tutti i confini terrestri e aerei con Bamako e di interrompere ogni relazione commerciale e i flussi finanziari con il Mali. 

A che punto sono le operazioni contro i jihadisti?

Le operazioni militari contro i jihadisti che controllano il nord e il centro del paese proseguono dal 2013, quando il governo maliano ha chiesto l’aiuto della comunità internazionale. Quell’anno l’esercito francese è intervenuto lanciando l’operazione Serval, che ha riconquistato gran parte del nord del paese in coordinamento con AFISMA, la missione internazionale lanciata dall’ECOWAS sotto comando nigeriano.

Da metà 2013 le operazioni di peacekeeping sono passate sotto il controllo della missione Onu MINUSMA, che attualmente consta di oltre 13.000 soldati, con compiti di stabilizzazione e supporto delle autorità civili ufficialmente riconosciute nel paese. Il governo francese ha invece dichiarato conclusa l’operazione Serval ma, dall’agosto 2014, ha riarticolato la missione lanciando l’operazione Barkhane con l’obiettivo di contrastare l’insurrezione jihadista nella regione, espandendo dunque le operazioni militari all’intero Sahel (al momento l’operazione schiera circa 5.100 militari). Da fine luglio 2020 a Barkhane si affianca anche la missione Takuba, anch’essa con compiti di contrasto al terrorismo, cui parteciperanno anche 200 militari italiani.

Purtroppo, malgrado l’aumento della presenza militare internazionale, con il passare del tempo la situazione di sicurezza in Mali e nel Sahel è andata deteriorandosi. Per citare solo un dato, negli ultimi dodici mesi i conflitti nella regione (in gran parte legati all’insurrezione jihadista) hanno causato quasi 6.600 vittime, di cui il 40% nel solo Mali e i restanti in Burkina Faso e Niger. Si tratta di un aumento del 60% rispetto al numero di vittime registrato nei dodici mesi precedenti. 

ispi.it

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