Covid-19, digitalizzazione, ricerca, innovazione, formazione.

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In piena estate 2020 la pandemia da Covid-19 ormai affligge 20 milioni di contagiati nel mondo (circa 5000000 in più negli ultimi 18 giorni). Idati ufficiali di positivi al tampone sono sicuramente sottostimati come dimostra anche un recente studio di sieroepidemiologia fatto in Italia su un campione rappresentativo, dove a fronte di 250000 contagi ufficiali viene stimato che gli infettati da Covid, di cui molti asintomatici, potrebbero essere circa 1500000, cioè oltre 5 volte in più. Estrapolando questa proiezione nel mondo oggi potrebbero esserci 100 milioni di persone colpiti dal Covid, visto che ufficialmente ne sono stati registrati circa 20 milioni. I morti ufficiali, sempre sottostimati, sono circa 700000 di cui 160000 negli USA (con 5 milioni di contagiati), 100000 morti in Brasile con 3 milioni di contagiati, 35000 decessi in Italia con 250000 positivi ed altre migliaia di persone morte e contagiate ormai in tutti i paesi del globo (dal Messico al Sud Africa, dalla Gran Bretagna alla Francia, dalla Russia all’India, dall’Iran alle Filippine, dalla Cina alla Corea del Sud, ecc.). in molti di questi paesi l’epandemia è arrivata o sta arrivando al picco rispetto ad altri ed in altri ancora assistiamo a tanti focolai di ritorno. In piena attività pandemica differenziata nel tempo è difficile, quasi impossibile, fare per ora fare confronti precisi fra i diversi approcci seguiti nell’affrontare il virus (come fanno ad es.  giornalisti come tal Minzolini che per criticare ciò che ha fatto il governo in Italia rispetto ad es. all’Amministrazione Trump, dice che ci sarebbero stati meno morti se si fosse seguito l’approccio angloamericano, non considerando che li siamo nella curva alta mentre da noi per ora in quella più bassa). Volendo fare una proporzione dei casi di mortalità a fronte dei poco più di 35000 decessi in Italia (ufficiali e sottostimati su 60 milioni di cittadini allora negli USA con circa 350 milioni di abitanti vi sono ora solo 160000 morti, cioè come in Italia rispetto alla popolazione e senza aver fatto un lockdown come il nostro,  non considerando però che ora gli USA sono nel trend elevato di contagi e morti mentre da noi vi è un trend lento con circa 400 contagi al giorno e una decina di morti a fronte di migliaia di contagiati n  e di oltre mille morti al giornoti al giorno negli USA. Paragone impossibile al momento. Comunque sia contro questo tipo di  malattia epidemica, in assenza di un vaccino sicuro e di cure efficaci(farmaci mirati,, anticorpi monoclonali o altro), una prima terapia, più che di tipo clinico, è di sanità pubblica o di medicina di Igiene: evitare contagi diretti con mascherine, distanziamento e pulizia. Su interventi clinici nei casi più o meno gravi non vi è certezza ed ancora non vi è un protocollo terapeutico preciso.

Un altro aspetto importante per fronteggiare il virus ed assistere meglio i pazienti Covid, e le persone fragili a rischio, era ed è l’individuazione precoce della patolologia ed il monitoraggio, anche domiciliare, del paziente grazie anche all’uso di opportune strumentazioni medicali con tecnologie digitali (sensori piattaforme di telemedicina per acquisire e controllare parametri sanitari specifici come ad es. temperatura, SpO2, peso, ecc.). Sistemi (dai più semplici con uso di video chiamate e lettura di parametri oggettivi ad App ed algoritmi di intelligenza artificiale)  e servizi di teleassistenza sanitaria devono ormai diventare di routine e messi a regime da subito in tutte le strutture ambulatoriali ed ospedaliere, nella medicina di base e in quella territoriale, permettendo così un’integrazione vera, efficiente, operativa del ciclo completo di prevenzione, cura e riabilitazione. (E tutto ciò deve essere supportato e accompagnato da nuove ed efficaci  piattaforme di sistemi informativi sanitari a livello locale e nazionale).

Riorganizzare in fretta e coordinare i sistemi sanitari: questo è un insegnamento che l’emergenza Covid ci ha imposto. Inoltre dalla Cina all’Italia a quasi tutti i luoghi dove la pandemia si sta violentemente sviluppando, occorre ridurre al minimo le fonti di contagio ovvero le persone stesse con misure di quarantena, lockdown più o meno totale, tracciabilità dei contatti e test per identificare i contagiati. Questo dovrebbe essere un protocollo internazionale condiviso da tutti, magari supportato scientificamente dall’OMS se questa Organismo non avesse mostrato all’inizio carenze informative ed anche una certa impreparazione.

Occorrevano ed occorrono metodi di intervento unitari e coordinati non solo a livello internazionale, ma anche su base nazionale e locale. Non si possono ammettere comportamenti discordanti e disomogenei in quanto in un mondo globalizzato e di libera circolazione di merci e persone, c’è il rischio certo che là dove si contiene in un modo la diffusione del virus, in un altro posto più o meno lontano ci si può comportare in maniera opposta, rendendo inutili sforzi umani sociali ed economici di questa o quella parte geografica anche per i diversi modelli di organizzazione e gestione sanitaria oltre che per le diverse idee politiche e tecniche (minimalisti, negazionisti, allarmisti, ecc.). E succede spesso che lo staff tecnico, anche di livello universitario, si mostra subalterno al potere politico, sottomettendone studi scientifici e applicazioni tecnologiche (occorre invece una forte e robusta indipendenza della scienza che deve essere posta solo al servizio della verità e dell’interesse collettivo).

 Bene ha fatto il Governo italiano a dichiarare lo stato epidemico già a fime gennaio ed il lockdown nazionale agli inizi di marzo (forse un po’ in ritardo per le resistenze delle regioni, in quanto la sanità purtroppo è di loro competenza da anni e si è sviluppata in modo competitivo e diseguale tra le varie realtà locali). Nei casi di emergenza e di pandemia la legge nazionale in materia di sanità (la 833 del 1978) prevede  che governo e ministero della salute possano imporre il coordinamento delle attività sanitarie. Ma sin dall’inizio le attenzioni delle regioni erano più volte a difendere la loro autonomia in questo settore invece di marciare compatti nel fronteggiare il grave fenomeno o peggio ancora ad usare l’emergenza per protagonismi e fini politici di questo o quel presidente o assessore, innescando spesso polemiche tra stesse regioni e tra loro e governo centrale. Senza un coordinamento nazionale che ha poi portato ad un’azione di chiusura in tutto il Paese, il solo pensiero di lasciare le scelte alle singole regione avrebbe portato a differenze di decisione non solo sui problemi sanitari ma dei trasporti, del turismo, della scuola, delle attività lavorative, ecc Scuole chiuse in un posto ed aperte nella regione vicina, treni fermi o al massimo delle corse, confini regionali sbarrati, ecc. Sarebbe stato un casos, tenendo presente anche i protagonismi dei vari Fonatana, Zaia, Toti, Bonaccini, De luca, Emiliano, Santelli ecc e poi quello dei sindaci a partire da Milano.

Se si fosse lasciata la scelta di chiudere o meno a tutti costoro  avremmo avuto 20 e più decisioni diverse basate più su egoismi di parte (magari di natura politica e geografica) che di interesse generale di sanità pubblica per la salute della gente colpita dal virus. (Abbiamo assistito anche in varie regioni a scandali in piena emergenza su mascherine, camici, nuovi ospedali, ecc. con la scusa di fare in fretta e scavalcare le procedure anche minime di controllo).

 Meno male che alla fine il Governo, dopo una dozzina di giorni, ha deciso, col supporto del CTS,  di mettere tutto il Paese in quarantena conscio del fatto, come affermavano la maggioranza dei medici, che il Covid è più di una forte influenza e che bisognava bloccare il veicolo del contagio. ovvero le stesse persone. e fronteggiare subito la casistica grave dei soggetti ammalati e ammassati negli ospedali (anche li abbiamo osservato diverse modalità di approccio ovvero regioni che hanno usufruito meglio della medicina comunitaria che avevano per monitorare i pazienti sul territorio o a casa e ridurre i ricoveri e regioni, come la Lombardia, che invece han fatto ricorso al ricovero generalizzato in tutti gli ospedali, favorendo inconsapevolmente la diffusione del virus in tutta la regione. Vedi il caso dell’ospedale di Anzano, nella bergamasca, prima chiuso come chiesto dai medici locali e poi subito riaperto come imposto dalla Direzione Sanitaria della Regione).

Che le regioni in Italia fossero in grado di gestire alcunché è  noto da ormai molti lustri. Sono il maggior centro di costo e di spesa pubblica con una burocrazia incapace che però sa nascondersi dietro slogan e proposte di facciata cambiando nome, ma non sostanza,  a questo o quell’organismo regionale  (USL, ASL, AST, ASST,…) o inventandosi per ognuna un nuovo modello, più  o meno famoso, da proporre, vendere e difendere: modello Toscano, Lombardo Veneto, Ligure, Umbro, Romagnolo, Pugliese, Campano e via cantando. Non sono in grado di gestire niente di nuovo se non quello che dovrebbe essere normale amministrazione che invece diventa importante frutto del modello regionale per cui ogni cosa semplice e dovuta diventa complessa e concessa. La sanità è il caso più eclatante, ma vale  per tutti i settori di competenza,  dall’ambiente al turismo, dai trasporti alla scuola, ecc. Per cui un diritto fondamentale costituzionale  come la salute, ma vale anche per altri diritti, lo si fa pesare molto che uno dovrebbe vergognarsi di ammalarsi. (Anni fa in Lombardia, dopo un ricovero ospedaliero veniva scritto nella lettera di dimissione quanti soldi era costato un paziente!!!).

 Purtroppo modelli sanitari in forte competizione fra regioni, considerano i malati non tanto come pazienti quante dei clienti da contendersi per far loro spendere soldi in via diretta con i drg o indirettamente con i viaggi della salute e soggiorni in questa o quella città. Insomma una vera e propria industria per prestazioni di cura o business sanitario. Mentre il principio deve essere quello del diritto alle cure giuste ed efficaci nel luogo in cui si vive. È  bastato il virus, con i tanti ammalati e morti che ha provocato, per mettere a nudo carenze e disfunzioni nei sistemi sanitari in Italia. E’ tempo di ripensare e riorganizzare il servizio sanitario nazionale per armonizzare quelli regionali. Un nuovo sistema sanitario nazionale integrato, eliminando sprechi ed irrazionalità e poggiato sulle moderne  tecnologie digitali, su ricerca e innovazione per permettere un vero salto di qualità ed accompagnare positivamente questa terza rivoluzione tecnologica, informatica e biologica, degli ultimi 50 anni, dopo quella del vapore e della Fisica tra 700 e 800 e quella elettrica e chimica tra 800 e 900. Non per tornare indietro come vorrebbero alcuni che minimizzano o negano il virus, ma per fare dei veri  passi in avanti forse in una nuova normalità, avviando comunque  uno sviluppo economico e sociale nuovo, poichè quello vecchio forse non regge più. Uno sviluppo compatibile con l’ambiente, senza sprechi e assalti alla natura, fatto insomma di cose utili per tutti noi e non di beni e servizi non essenziali o futili o dannosi.

Da tanti anni ci occupiamo (dagli anni ’80-90 sulla rivista scientifica “Agorà” ed in particolare dal 1997 sulla nuova “Agorà 2000”, di società dell’informazione e sue ricadute sugli aspetti umani, lavorativi e sociali (anche sanitari) ed una dozzina di anni fa (vedi allegato) si  affermava, per il nostro Paese,  di puntare  su Ricerca ed Innovazione per “… lanciare una seria politica di Innovazione e Sviluppo che punti a creare oltre ad una vasta cultura anche un valido supporto ad una industria italiana basata sull’innovazione. L’industria biomedica può diventare una ricchezza del nostro Paese se viene potenziata per fornire ad acquirenti pubblici e privati i prodotti necessari per un’innovazione utile alla salute dei cittadini. Inoltre, tale comparto basato anche su ricerche e innovazioni può essere un’importante fonte di occupazione.

Occorre una politica che favorisca in vario modo l’industria che fa ricerca ed innovazione in campo sanitario ed in Italia vi sono tutte le potenzialità umane e strumentali per non perdere questo treno nella corsa all’innovazione in generale e in medicina in particolare. La qualità umana è una delle risorse fondamentali a cui attingere per cambiare e migliorare il sistema sanitario (aggiornamento professionale anche con una vera e propria riforma del sistema universitario e dei corsi di laurea in medicina, ricerca scientifica e innovazione tecnologica nei sistemi diagnostici e terapeutici).

Anche le realtà regionali, dove sono presenti strutture d’eccellenza (centri di ricerca, università, ospedali, imprese, ecc.) possono avere un ruolo nel campo della ricerca rimedica e dell’innovazione in sanità. Le regioni possono finanziare la ricerca tenendo conto che la maggior parte delle loro attività e del loro budget (70-80%) riguarda la sanità e che gestiscono ormai in proprio. A questo sforzo della ricerca devono essere coinvolti non solo gli IRCCS e le Università, ma anche diversi ospedali medio-grandi che sono centri di eccellenza di cura in molte realtà regionali, le imprese (piccole e medie) nel campo della diagnostica, della strumentazione biomedicale, dell’informatica, delle biotecnologie, ecc. presenti in molte realtà territoriali a nord come nel centro-sud.

In particolare, occorre:

– sviluppare ricerche sull’organizzazione sanitaria, sul trasferimento delle scoperte scientifiche nella pratica clinica,  rafforzando il ruolo di alcune importanti istituzioni come gli Istituti di Ricerca a Carattere Scientifico (IRCS), l’Istituto Superiore di Sanità, le Agenzie Regionali di Sanità Pubblica

– Incrementare la formazione professionale degli operatori sanitari, attraverso nuovi corsi (bioingegneria, informatica biomedica, telemedicina,  etc.) e con Corsi ECM (Educazione Continua in Medicina);

– Formare e premiare la qualità dei progetti salvaguardando la libertà dei ricercatori, per cui è necessario che una parte degli stanziamenti venga indirizzato a rispondere a quesiti specifici di sanità pubblica

– Aumentare e migliorare i livelli di informazione sanitaria per i cittadini

– Aggiornare il parco macchine delle strumentazioni diagnostiche e terapeutiche

– sviluppare interventi innovativi nel campo della ricerca e dell’uso dei farmaci

– Incentivare la cooperazione europea ed internazionale degli enti di ricerca e sviluppo e dell’industria italiana in questo importante settore della biomedicina e dei servizi sanitari”.

Tematiche queste, attuali allora, anche se mai sviluppate appieno visti i pochi investimenti finanziari da noi (meno dell’1% del PIL contro più del 2% a livello europeo e del 3-4% degli USA e del Giappone) e più che mai indispensabili oggi dopo la tragedia del Covid. Per vincere una sfida di sopravvivenza, sviluppo e progresso bisogna ripartire da questi e altri punti importanti come ad es. la liberalizzazione degli accessi agli studi universitari (dopo l’obbligo della scuola media negli anni ’60 e la diffusione negli anni ’80 delle superiori in quasi tutti i comuni). Occorre  ora favorire a tutti l’accesso alle università e far sì che venga abolito il numero chiuso o programmato, specialmente a medicina e permettere a chi vuole dei nostri giovani, di frequentare studi, pratica medica e tirocini (il Covid ha messo a nudo anche questa realtà di una carenza strutturale di personale sanitario anche per incapacità nel saper programmare il fabbisogno di operatori imedici e paramedici). Occorre eliminare tutti gli ostacoli per l’accesso agli studi di alta formazione e far sì che tutti gli studenti possano misurarsi con le materie dei vari corsi di laurea in Italia ed in Europa. E non si venga poi a dire che nel nostro Paesevi è la percentuale più bassa di laureati!. Certo scoraggiandoli con test inutili (invece di garantire insegnamenti efficaci e completi) si perpetua di fatto una realtà scolastica  discriminatoria, rimarcando differenze sociali tra famiglie ricche e povere (una volta si diceva differenze di classe).

Francesco Sicurello (presidente @itim/iitm)

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